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Honda Transalp e Hornet: i designer rispondono
Perché hanno quella forma? A quali versioni si rifanno? Che rapporto c’è tra tecnica e forma? I designer delle nuove Hornet e Transalp spiegano la loro interpretazione delle due icone di casa Honda
Tocchi un mostro sacro e accendi il dibattito: figurati se di mostri sacri ne tocchi due. Era già successo nel 2021 con la Ducati Monster, stravolta nell’impostazione, nella tecnica e nell’aspetto come mai prima; accade di nuovo con le Honda Transalp e Hornet, due icone degli Anni 80 e 90 rispettivamente prodotte dalla Casa che, con Ducati, è appunto quella capace di accendere passioni più integraliste.
Mettiamo in ordine le idee. Tutti ci siamo concentrati sul gioco “trova le differenze” tra le antenate e le moto attuali, passando sotto silenzio la cosa forse più rivoluzionaria, e cioè il fatto che due moto così diverse per epoca, impostazione e motore come la Transalp e la Hornet siano state unificate sotto una piattaforma tecnica comune. Qualcosa che ai tempi sarebbe stato inconcepibile, perché al massimo erano gli italiani e i tedeschi, con le loro poche risorse dell’epoca, a condividere il motore (mai il telaio) tra modelli diversi, mentre soprattutto Honda seguiva la filosofia “un motore, una moto” con pochissime eccezioni. L’idea di apparentare l’originale V 52° della Transalp al 4 in linea della Hornet, insomma, non avrebbe nemmeno sfiorato la Honda del secolo scorso.
L'era dell'integrazione
Il Ventunesimo secolo, però, è quello dell’integrazione e della condivisione, trainate principalmente dall’imperativo di contenere i costi. E così, con l’obiettivo di restare protagonisti del segmento medio nonostante l’arrembaggio dei costruttori cinesi, a Tokyo devono aver messo da parte gli scrupoli di ordine tecnico, filosofico e persino di nomenclatura (i nomi Honda sono sempre discesi dallo schema motoristico, e mai si erano viste una moto siglata XL e una moto siglata CB con lo stesso motore) e hanno varato l’operazione di dissotterramento delle due gloriose corazzate del secolo scorso.
Sono così entrati in scena tecnici e designer, tutti con compiti difficilissimi. I primi dovevano realizzare un motore capace di contenere in sé sia la pastosità della prima Transalp che la grinta della prima Hornet, con una base ciclistica altrettanto rigorosa e versatile per essere differenziata nelle due incarnazioni; i secondi definire due personalità estetiche moderne ma in continuità con il passato, e ben distinte nonostante la base comune con i suoi vincoli (telaio, motore, proporzioni e persino lo stesso faro).
La sfide dei designer
Con tutto il rispetto per il lavoro dei primi, che hanno scelto l’ormai diffusissima soluzione del bicilindrico parallelo con manovelle a 270°, gestione ride-by-wire e alcuni elementi distintivi, come la distribuzione Unicam, il lavoro più delicato è toccato ai designer. Perché dando per scontato che il twin parallelo scontenterà tanto i puristi della Transalp che quelli della Hornet, è dello stile il compito di riconciliare gli animi.
Honda ha fatto, come si fa di solito, un concorso interno tra i suoi Centri Stile in giro per il mondo, e sia per la Transalp che per la Hornet la proposta scelta proveniva da quello italiano di Roma: la Transalp di Valerio Aiello e la Hornet di Giovanni Dovis.
Valerio, partiamo dalla Transalp che è la novità del Salone. Sembra riprendere soprattutto la prima serie.
VA – “Sì, la prima serie era sicuramente la più iconica e più riuscita. Personalmente mi piaceva molto, e quando ho preso in mano il progetto ho spinto io in quella direzione.”
Quindi non era un brief di progetto?
VA – “Non si è detto in maniera chiara, ma era una cosa nell’aria. Quando si pensa alla Transalp, tutti pensano a quella versione con la sua silhouette unica, raccordata senza soluzione di continuità dal frontale al posteriore. L’ho ripresa e mi ha consentito di richiamare anche quelle grafiche orizzontali, che altrimenti non si possono usare.”
Allora però era davvero unica – quando apparve era la sola enduro bicilindrica – mentre ora inserisce in un segmento affollatissimo, addirittura all’interno della stessa gamma Honda.
VA – “Sì, è stato un lavoro davvero chirurgico, il rischio di cannibalizzare altri nostri modelli era altissimo. Per fortuna è una 21”-18”, quindi ha già una sua declinazione più a 360°, e alla fine sono contento del risultato: ha proporzioni tutte sue e ho tenuto la coda compatta, corta, rendendo il frontale più muscoloso ma senza esagerare. La cosa che mi piace di questo modello alla fine è che anche se lo guardi da lontano, e nonostante il motore non sia più un V2, la riconosci immediatamente come una Transalp, già dalle sue proporzioni. E questo è importante, perché credo che uno dei valori che aveva la vecchia Transalp, e che in generale molte Honda hanno, è che il suo design comunica una certa facilità d’approccio, che poi è quella che ritrovi alla guida. È un design semplice, che ti mette a tuo agio, ti comunica facilità di guida, ti mette voglia di viaggiare.”
Anche qui: è stata una richiesta esplicita o è qualcosa che nasce dalla loro cultura aziendale?
VA – “C’è ovviamente sempre un brief, ma a monte tutto nasce dalla cultura aziendale di Honda, che punta a creare veicoli mai troppo estremi, adatti per un ampio ventaglio di clienti: questo approccio si diffonde poi a tutti i livelli, dall’erogazione del motore al comportamento ciclistico e naturalmente al design. E anche noi, che siamo un centro stile europeo di Honda, abbiamo assorbito questa cultura.”
Ma come mai due progetti che ai loro tempi venivano dal Giappone ed esprimevano il vertice del gusto giapponese adesso non sono più disegnati là ma in Italia?
VA – “Ci sono diversi motivi, il primo dei quali è che la Honda di oggi è diventata enormemente più grande, articolata e complessa rispetto alla Honda di allora. Tra le conseguenze di questa crescita c’è il fatto di aver aperto una serie di R&D e centri stile in giro per il mondo, per captare a livello globale gli stimoli e le tendenze dei mercati. Centri che 30 o 40 anni fa semplicemente non c’erano: quando Atessa sfornava decine di migliaia di 125 2T l’anno, un centro stile vero e proprio non c’era.”
GD – “Fra questi centri noi facciamo di solito un concorso interno, una sketch competition: diversi designer vengono messi a lavorare su uno stesso progetto finché uno di loro non se lo aggiudica con la sua proposta.”
Quindi sarebbe potuto ancora succedere che la Transalp e la Hornet fossero disegnate in Giappone, o magari una in Italia e l’altra in Giappone?
VA – “Assolutamente sì. I due progetti erano indipendenti dal punto di vista dello stile.”
GD – “Comunque quello che succede è che anche se è un designer solo che porta a conclusione il progetto, nel percorso ci si arricchisce a vicenda: ogni designer vede il lavoro degli altri e gli spunti migliori tendono comunque a essere conservati. Questo aiuta ad avere prodotti di gusto più internazionale, che abbraccino le visioni del Giappone, dell’Europa e dell’America. Il risultato è comunque figlio del lavoro di gruppo fatto in partenza e in questo la cultura giapponese, che ci si immagina sempre un po’ chiusa, è davvero molto collaborativa e democratica. È un bel bilanciamento fra democrazia e meritocrazia.”
Veniamo alla Hornet, Giovanni: se la Transalp riprende soprattutto la prima serie del 1986, la più iconica, perché la Hornet non fa altrettanto?
GD – “Non ho voluto rifarmi stilisticamente alle Hornet del passato, quanto immaginare una incarnazione attuale di quel concetto: una moto sportiva leggera e senza orpelli, ma immersa nel mercato di oggi e allineata alle esigenze di un cliente di oggi. Piuttosto che citare una serie in particolare, ho ripreso un po’ tutta la storia innovativa della Hornet, che è uno degli archetipi fondanti dell’universo naked. “
Un po’ come è successo con la sua arci-rivale, la Ducati Monster. Criticatissima quando è apparsa nella quarta generazione, ma poi venduta molto bene tra i giovani, come si proponevano a Bologna.
GD – “C’è ancora, soprattutto in Italia, questa visione del designer come artista libero di fare quello che vuole. Ma il designer è a servizio dell’azienda e le aziende oggi non possono più agire d’impulso: conoscere il proprio cliente è fondamentale. Anche noi abbiamo in target i giovani ma sappiamo che il nostro cliente è particolarmente razionale, non ama l’arroganza e lo stile vistoso e preferisce una sportività misurata.”
Questo è quindi quello che hai cercato nella “tua” Hornet?
GD – “Sì, ho puntato a mantenere la semplicità delle parti, come ci si aspetta da una naked, e la leggerezza dell’insieme: la moto può sembrare differente dalla prima, ma quel tipo di leggerezza è lo stesso. Mi sono fatto guidare dalla suggestione dell’ala del calabrone, un tema di stile che mi piaceva molto e che nel mondo delle appendici aerodinamiche è anche particolarmente attuale.”
È un’idea di design molto forte, che aggiunge qualcosa che non c’era sulla prima. Forse è questo che disorienta, visto che Honda non aveva mai calcato la mano sulla connessione con l’insetto. Un’altra cosa che disorienta è il telaio rosso.
GD – “Sì, quella è stata una proposta nostra, per differenziare le versioni il più possibile: due col telaio nero e due col telaio rosso. Del resto non è l’unica novità cromatica: è la prima volta che Honda non vernicia i carter a contrasto, ma fa un motore total black.”
Forse sarebbe bastato un faro tondo per accontentare tutti.
GD – “Forse, ma quello lo avevamo già sulla CB650R, che non volevamo cannibalizzare. E poi come ho già detto ci era assolutamente chiaro che quel tipo di moto non poteva più essere riproposto con la stessa formula, né tecnica né estetica, ma andava innovato. Anche se capiamo e rispettiamo l’opinione dei puristi.”
VA – “Non dimentichiamo anche che entrambe le moto avevano fin dall’inizio l’obiettivo di mantenere un prezzo competitivo, obiettivo che ha avuto conseguenze come la condivisione del motore e del telaio, ma anche della strumentazione e del faro. Sia la Hornet che la Transalp sono piatti molto ricchi di ingredienti, ed è chiaro che per essere il più accessibili possibile qualche rinuncia la si è dovuta fare. Detto questo, siamo molto contenti del risultato e confidiamo che questo pacchetto tecnico e stilistico avrà successo.”
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