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Belle e maledette: breve storia delle moto che hanno provato a fare la rivoluzione (e perché hanno fallito)

Christian Cavaciuti
di Christian Cavaciuti il 11/12/2025 in Moto & Scooter
Belle e maledette: breve storia delle moto che hanno provato a fare la rivoluzione (e perché hanno fallito)
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Il settore delle moto è in realtà conservatore, con novità che arrivano lentamente in un panorama tecnico piuttosto stabile. Ecco le storie di alcune moto che hanno provato a fare la rivoluzione - e perché non ci sono riuscite

Si ha un bel dire che ai motociclisti piace l'innovazione. Finché l'innovazione è un display più colorato, una presa d'aria che regala qualche cavallo in più al motore, un freno più leggero, tutto bene. Ma se l'innovazione diventa più radicale iniziano a storcersi i nasi - e non solo quelli degli ultraconservatori seduti su una Harley-Davidson o una vecchia Guzzi a carburatori. Anche senza arrivare alla moto elettrica, basti vedere con quanta diffidenza sono stati accolti l'ABS, il controllo di trazione, il Ride-By-Wire o il cambio automatico, per non parlare delle ciclistiche alternative (Yamaha GTS 1000, chi se la ricorda?).

Nonostante questo, il fascino delle strade inesplorate resta altissimo, non solo per chi guarda ma anche e soprattutto per chi le tenta, nella speranza di portare un cambiamento duraturo. E nonostante queste avventure raramente finiscano bene si continua a provarci, lasciando se non altro delle bellissime storie da raccontare agli appassionati. Noi abbiamo selezionato le più intriganti - e in qualche caso tragiche - degli ultimi decenni. 

Belle e maledette: breve storia delle moto che hanno provato a fare la rivoluzione (e perché hanno fallito)

1. Bimota Tesi 1D

(Prototipo 1983 - serie 1990)

La madre di tutte le rivoluzioni è quella della Tesi, oggetto mitologico dal fascino ancora incredibile. La Tesi nasce dalla tesi di laurea in ingegneria di Pierluigi Marconi, che poi riesce a sviluppare la sua idea in un’azienda che fa dell’esclusività tecnica il suo tratto distintivo. L’origine dello sterzo all’interno del mozzo ruota va in realtà all’americano De Fazi, ma Bimota è la prima a tradurlo in realtà. Operazione non priva di difficoltà perché non esiste niente di simile per cui mancano l’esperienza, i componenti (la prima crociera è quella di una Fiat 131) e anche le gomme adatte.

La Tesi riesce comunque a vedere la luce, dopo una lunga sperimentazione, in una Bimota che non è già più quella del “tridente” Bianchi – Morri – Tamburini ma mantiene lo slancio innovativo delle origini. Piena di parti costruite su misura e basata su un "pompone" Ducati raffreddato ad aria, la Tesi 1D del 1990 diventa immediatamente un’icona con i due forcelloni (anteriore e posteriore) e l’architettura delle sospensioni che riduce l’affondamento in frenata. Un sistema delicato, messo a punto con qualche compromesso per l’uso stradale e che rende la moto, per quanto tecnicamente acclamata, costosa ed esclusiva: seguiranno altre versioni (2D, 3D fino all’attuale H2), tutte però con produzione limitata a poche decine di esemplari e nessun seguito tecnico da parte di altri costruttori.

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2. Vyrus 985

(2005)

C’è a dire il vero un altro marchio che ha portato avanti il concetto della Tesi, ma possiamo considerarlo uno spin-off dell’azienda riminese: la Vyrus nata da Ascanio Rodorigo, tecnico-pilota che in una delle tante fasi difficili della vita di Bimota ne fuoriesce con l’intento di produrre in proprio piccole serie di moto con il sistema di sterzo nel mozzo. Nasce così nel 2001 la ARP (Ascanio Rodorigo Preparazioni), che più tardi diventa Vyrus. Inizialmente la ciclistica è quella della Tesi 2D, ma Rodorigo lavora ben presto sulla precisione degli accoppiamenti, sui materiali e anche sui motori, con l’obiettivo di fornire moto ancora più esclusive: quando Bimota resta ancorata al bicilindrico Ducati ad aria, lui inizia a usare il Testastretta da 150 CV (2005), più tardi addirittura sovralimentato (2009).

Nel 2009 Vyrus si distacca ancora di più dalla tradizione Bimota con la Alyen disegnata da Adrian Morton, spinta dal motore Testastretta Superquadro da oltre 200 CV e con telaio in magnesio. L’azienda è oggi piccola ma solida, le sue moto molto apprezzate ma restiamo decisamente nell’ambito della nicchia: parliamo di qualche decina di moto per serie, se non di poche unità, costruite praticamente su misura per gli appassionati (e facoltosi) clienti, molti alloggiati dalle parti di Hollywood.

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3. Buell Firebolt XB12R

(2003)

Una meteora davvero luminosissima, ma sempre meteora è stata la Buell di Erik Buell, anche lui tecnico-pilota che dopo un’esperienza in Harley-Davidson, nel 1983 fonda la sua azienda con l’idea di sviluppare moto sportive dotate di motore H-D. Quello che per tutti era un controsenso, per Buell è una sfida piena di fascino, e il risultato di fascino ne ha da vendere, grazie a soluzioni tecniche ed estetiche non convenzionali (telaio in alluminio con due enormi travi che contenevano la benzina – realizzato in Italia da Verlicchi – scarico sotto il motore, freno anteriore perimetrale, codino cortissimo, centralizzazione estrema delle masse). Parliamo di moto che piacciono in mezzo mondo: la Buell Motorcycle Company supera le decine di migliaia di unità nella sua storia, prima di venire acquistata da Harley nel 2003 e precipitosamente chiusa nel 2009, a seguito della crisi finanziaria del 2008, quando H-D si disfa anche di MV Agusta.

Piacciono soprattutto le nude, ma Erik Buell è un appassionato di corse e le sue moto più incredibili sono le sportive come la XB12R Firebolt, che avrebbe dovuto essere sovralimentata, idea poi accantonata per i costi insostenibili, o la 1125R, il canto del cigno dell’azienda. La 1125R sfoggiava per la prima volta un motore non H-D, realizzato su misura per una moto sportiva: l’Helicon, un bicilindrico a V di 72° sviluppato in Austria da Rotax con componentistica europea (i corpi farfallati erano ad esempio Dellorto), moderno e capace di 146 CV. Prima che Buell possa trarne veramente beneficio, però, ne viene annunciata la chiusura. Molte delle idee di Erik Buell diventano patrimonio comune del motociclismo (dallo scarico basso al codino ultracorto), altre vengono abbandonate; Erik ci riprova in tanti modi, ma nel complesso anche la sua rivoluzione fallisce.

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4. Motoczysz C1 990

(2007)

Evidentemente negli USA c’è il complesso della mancanza di supersportive a stelle e strisce, se anche l’architetto/designer/tecnico/pilota Michael Czysz nel 2003 ha pensato di fondare a Portland, nell’estremo nord-ovest del Paese, la MotoCzysz con l’obiettivo di realizzare una superbike “made in USA”.

Czysz è un designer di successo responsabile tra l’altro di numerosi hotel, casino e delle case di Lenny Kravitz e Cindy Crawford. Ama le scelte originali e abbonda anche sulla C1, un progetto pieno zeppo di soluzioni rivoluzionarie, proprio quello che complica la vita a un’azienda che sta nascendo: il telaio è in carbonio con airbox integrato, dietro c’è un particolare sistema con doppio ammortizzatore e il motore è un 4 in linea disposto longitudinalmente, con 3 assi a camme e l’albero motore diviso in due parti controrotanti per annullare l’effetto giroscopico. Anche la frizione, antisaltellamento, è sdoppiata mentre due dei corpi farfallati sono controllati elettronicamente e due meccanici. L’obiettivo è arrivare a correre in MotoGP, e la C1 ha le carte in regola per diventare la prossima Britten.

Affascinante sia tecnicamente che esteticamente, la C1 viene offerta a 100.000 dollari a fronte di una caparra necessaria per avviare la produzione dei primi 50 esemplari; ma tra i molti talenti di Michael non c’è probabilmente quello per gli affari, perché la produzione non si realizza mai. In compenso nasce la C1pc, elettrica racing che ottiene risultati lusinghieri al TT Zero, dove vince nel 2010, 2011, 2012 e 2013. Lo stesso Czysz corre e vince nella Laguna Seca e-Power, ma purtroppo si ammala di una rara forma di tumore che lo porta alla morte nel 2016. La sua azienda gli sopravvive, ma solo brevemente.

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5. NCR M16

(2010)

Torniamo in Italia e anzi dalle parti di Bologna con NCR, acronimo di Nepoti e Caracchi Racing. L’atelier bolognese attivo dal 1967 nelle elaborazioni estreme su base Ducati. Dopo essere confluito nel gruppo Poggipolini, specializzato nelle lavorazioni di precisione, il marchio viene usato come vetrina tecnologica. Il progetto Millona (originariamente 100ONE) viene presentato a EICMA 2002 col motore bicilindrico ad aria della Multistrada 1100DS, suscitando un certo interesse al punto da ventilare una sua cessione alla Bimota (avrebbe dovuto chiamarsi Bimota 666 L.E.). L'accordo però non si trova e la NCR decide quindi di commercializzare la moto col proprio nome.

Col “pompone” elaborato fino ad erogare 105 CV e un peso a secco di appena 112 kg grazie all’utilizzo estensivo di carbonio e titanio (per il telaio a traliccio), la Millona va forte e si guida bene, grazie anche alle sospensioni Öhlins e ai freni Brembo radiali. Riesce a vincere il Campionato italiano Supertwins 2005, l’Europeo Supertwins nel 2007 e la classe Sound of Thunder alla Daytona Bike Week dello stesso anno. È anche bella grazie alla mezza carena (ovviamente in carbonio) disegnata da Aldo Drudi, ma non raccoglie grande popolarità.

L’esperienza viene comunque ripetuta con la M16 (Millona 16) del 2010, altra race replica estrema con telaio monoscocca in carbonio, di nuovo largo uso di titanio e motore V4 Desmosedici RR – quello del 2007-2008 – con oltre 200 CV e un peso sempre molto contenuto: appena 145 kg. È una moto estrema, con un motore poco meno che racing, telaio e forcellone in fibra di carbonio, forcella Öhlins FGR000 e mono Öhlins TTX, freni carboceramici con pinze radiali Brembo Racing. Un prodotto chiaramente da boutique, che partecipa a qualche gara e qualche evento ma non diventa mitica, anzi resta poco conosciuta anche agli appassionati. Si parla insomma di pochi esemplari prodotti su richiesta.

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6. Hesketh V1000

(1980)

Se gli americani non possono tollerare la mancanza di una superbike a stelle e strisce, figurarsi gli inglesi che per decenni hanno dominato il settore. In particolare la cosa non va giù a Lord Alexander Hesketh, che dopo essersi cimentato con la Formula1 decide verso la fine degli Anni 70, con Triumph e Norton già in stato comatoso, di rilanciare la tradizione inglese delle grandi bicilindriche. Per farlo fonda, tra un the e un passaggio alla camera dei Lord, la Hesketh Motorcycles che sorge nella sua tenuta di Daventry, nel Northamptonshire.

La Hesketh riprende la tradizione “British” del grande V-twin (Brough Superior, Vincent HRD) ma con un progetto moderno affidato ai progettisti di F1 della Weslake. Il motore raffreddato ad aria, che per aspetto e disposizione ricorda molto un Ducati “pompone”, dentro è in realtà più moderno: superquadro (95 x 70 mm), con l’albero motore ricavato dal pieno e la distribuzione bialbero a quattro valvole per cilindro: la potenza dichiarata era di 86 CV a 6.500 giri/min, un ottimo valore per un bicilindrico se consideriamo che i 4 in linea giapponesi dell’epoca avevano una manciata di CV in più.

Anche la ciclistica era di livello, con forcella regolabile, doppio ammortizzatore Marzocchi e tre dischi freno Brembo su cerchi in lega componibili. Hesketh fu tra i primi a sperimentare la soluzione del pignone coassiale al perno del forcellone per avere un tiro catena costante, soluzione che si è poi rivelata inefficace nonostante i tentativi fatti da BMW (G 450 X) e Husqvarna (TE 450). A frustrare le ambizioni della V1000 fu però soprattutto l’affidabilità troppo bassa, dovuta a errori di progettazione che costrinsero a richiamare l’intera produzione: un colpo mortale per l’azienda, che chiuse dopo aver prodotto appena 130–150 pezzi. Lord Hesketh ci riprovò subito, fondando la Hesleydon Ltd per produrre una versione carenata della V1000, la Vampire, ma dichiarò di nuovo fallimento dopo una cinquantina di esemplari prodotti, decidendo una volta per tutte di dedicarsi alla caccia alla volpe.

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