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Paolo Magri (BREMBO) ci racconta i freni del futuro

Marco Gentili, foto di Marcello Mannoni il 04/07/2018 in Attualità

Il direttore della business unit moto del colosso italiano che produce impianti frenanti a tu per tu con Dueruote: l'elettronica entrerà anche nei freni da moto? E la carboceramica? Cosa succederà col brake by wire?

Paolo Magri (BREMBO) ci racconta i freni del futuro
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Paolo Magri non è solo un uomo d'azienda. Certo, i 38 anni di militanza in Brembo lo legano indissolubilmente alla multinazionale dei sistemi frenanti con sede in provincia di Bergamo (ormai diventato un colosso da 2 miliardi e 463 milioni di fatturato, quotato in Borsa). Non è solo il capo della business unit moto, ma è soprattutto un motociclista vero. Uno che ha finito la facoltà di ingegneria meccanica con due anni di ritardo perché la sua passione era correre nella Regolarità, dove è stato un ufficiale Gilera negli Anni 70.

“Ho smesso a livello agonistico dopo la laurea, quando mio padre mi disse che era il caso di mettermi a fare la persona seria”. Nel 1980 entra in Brembo e un anno dopo è nel gruppo di lavoro che fa nascere il primo freno a disco per l’off-road. “Nel 1981 noi a la Kawasaki lo brevettammo quasi in contemporanea. Nel fuoristrada non c’è stata una rivoluzione più epocale di quella, paragonabile solo a quella che c’è stata sulle sospensioni. Oggi, che ancora mi diletto con le moto da regolarità storiche, mi rendo conto di come quelle moto non frenassero affatto!”.

Quali sono le differenze principali nella concezione tra i freni da fuoristrada e quelli stradali?
“Nell’off-road hai bisogno di una prestazione inferiore, ma di una maggiore sensibilità e di un sistema che sia in grado di funzionare in differenti condizioni climatiche di utilizzo. Su strada invece conta molto di più la performance”.

Come con le pinze Stylema, che hanno debuttato sull’ultima Ducati Panigale V4.
“Per noi lavorare con Ducati, e in generale creare impianti freno per le supersportive, rappresenta un motivo d’orgoglio. In questo caso abbiamo lavorato a stretto contatto con la Casa bolognese. Basti pensare che oggi, in media, la coppia che può sviluppare un impianto frenante è 5 volte la coppia motore. Il problema della coppia è metterla a terra. La Stylema mette in crisi l’anteriore tra i 15-20 bar, ma può arrivare fino a 100”.

Il vostro marchio è noto soprattutto per l’ìdentità racing e il legame con le moto ad alte prestazioni.
“Quando i produttori giapponesi, per le loro supersportive, hanno bisogno di un impianto frenante che unisca performance a brand, si rivolgono a noi. Ciò non può che farci piacere. La stessa Honda, che controlla Nissin, usa Brembo nel racing pur avendo a disposizione in casa un produttore di indiscussa qualità”.

Chi è il vostro più agguerrito rivale sul mercato?
“Nel campo dei sistemi frenanti completi, Nissin è il nostro principale competitor. Noi abbiamo dalla nostra un marchio decisamente più forte, loro sono molto più affermati tra i produttori di motociclette giapponesi”.

Un nome legato allo sport

Quasi tutti pensano che Brembo viva grazie agli impianti delle supersportive.
“Falso. Innanzitutto da qualche anno siamo sbarcati in modo massiccio anche nella produzione di impianti frizione, che produciamo per Harley-Davidson, Ducati e KTM. Tornando ai freni, i nostri clienti più importanti in termini numerici sono Harley-Davidson e Royal Enfield”.

Davvero?
“Brembo è una multinazionale e ragiona in quest’ottica. Pensi che l’India, con 20 milioni di pezzi prodotti all’anno, è l’eden per i produttori di moto e componenti. Royal Enfield da sola totalizza annualmente 1,7 milioni di veicoli, in pratica da sola vale più di tutto il mercato delle moto in Europa. Poi seguono in ordine di importanza BMW, Bajaj, KTM, Ducati, Bombardier, Yamaha e Hero”.

Non è un caso che stiate per aprire un terzo stabilimento da quelle parti.
“Brembo ha due posizionamenti di mercato. Quello di alta gamma, con marchio Brembo, che insiste sui veicoli dai 500 cc in su. Tutto viene prodotto nello stabilimento di Curno, in provincia di Bergamo. Poi c’è Bybre, ossia i sistemi prodotti a Pune, nello stabilimento della Brembo Brake India. Ad Avenel, negli Stati Uniti, e a Nuova Delhi, abbiamo due stabilimenti di servizio. Sempre in India, il prossimo ottobre ne apriremo un altro di servizio a Chennai, dove sorge lo stabilimento Royal Enfield”.

Cosa intende per stabilimenti di servizio?
“Sono i luoghi dove gli impianti, quindi dischi, pinze, pastiglie, cablaggi, pompe freno e ABS, vengono assemblati e spurgati, e poi consegnati al cliente per essere messi sulla catena di montaggio. Gli impianti frenanti sono sistemi delicati, non possiamo farli uscire da Curno e metterli in un aereo, col rischio che le casse vengano sballottate o rigirate. Ne va della sicurezza stessa del sistema”.

Quindi Brembo dipende dall’India?
“Il grosso del mercato è là per i volumi. L’India vale 3,1 milioni di impianti all’anno su un mercato totale di 6 milioni, lo stabilimento italiano appena 1,5. I fatturati invece si fanno ancora in Europa coi prodotti di alta gamma”.

E la Cina, il Far East?
“In Cina si vendono 8-9 milioni di moto all’anno, un dato in progressivo calo. Là il governo sta mettendo in atto in modo scientifico una politica che disincentiva le moto. Paesi come la Thailandia potrebbero essere interessanti, ma le risorse non sono infinite. L’India per noi è un bel problema”.

In che senso?
“Quando 10 anni fa abbiamo rilevato la BBI, acquistando le quote della joint venture da Bosch, facevamo 5 milioni all’anno di fatturato. L’anno prossimo saremo a 100, e cresciamo del 30% ogni 12 mesi. Non vogliamo bruciare le bistecche che abbiamo sul fuoco, aprendo nuovi fronti e distogliendo l’attenzione da un mercato come quello indiano che va benissimo”.

A proposito di Bosch, come mai una decina di anni fa avete abbandonato il promettente settore dell’ABS?
“Abbiamo fatto le applicazioni ABS per Bosch ma era previsto che, quando questo mercato sarebbe esploso, noi avremmo fatto un passo di lato, lasciando loro campo libero. Noi comunque non siamo produttori di ABS idraulici, li abbiamo solo aiutati, nell’ottica dei rapporti di buon vicinato”.

Impianti perfetti

Il freno ormai è qualcosa che si dà per scontato.
“La tecnica è arrivata a un punto di evoluzione tale che è impensabile fare rivoluzioni, ma solo affinamenti. Gli impianti vengono testati con prove di resistenza e scoppio a valori inimmaginabili. Prima di arrivare in strada ogni impianto deve resistere a una pressione di minimo 250 bar e 300mila cicli di utilizzo. Il problema della coppia frenante è che su molte moto è difficile metterla a terra. È per questo che su certe sportive viene montato l’ABS con l’anti-lift, ossia l’anti capottamento”.

Dove può migliorare la tecnologia?
“È tra disco e pastiglia che si genera la performance frenante. Si può fare qualcosa su alcuni materiali, lavorare sulla combinazione tra pinza, pompa e disco, e su una maggiore sensibilità delle pompe freno stesse. Ma sono aggiustamenti minimi”.

E sui dischi?
“Non esiste niente di più performante, almeno in strada, dell’acciaio inossidabile. Per noi è un vanto poter avere l’acciaio giapponese prodotto in esclusiva dalla Fujico, il migliore al mondo. La qualità è così alta che siamo diventati soci di quell’azienda”.

I freni e l'elettronica

Sulle pinze, invece, che lavoro si può fare?
“In futuro si potrà immaginare di avere pinze in alluminio, ora fuse in gravità, con la forgiatura a caldo. Si tratta di un procedimento che comporterà di avere forme fuse in maniera diversa e un miglioramento sui fronti della performance e della leggerezza. Ma sarà un procedimento limitato solo per una nicchia di moto ad altissima prestazione”.

L’elettronica entrerà in questo settore?
“Certo. La moto erediterà dal mondo dell’auto il brake by wire, ossia il freno a comando elettronico. Sarà un processo a caduta, come del resto è successo con l’ABS anni fa. Ma occhio: non è un’innovazione dietro l’angolo. Il brake by wire avrà un senso solo con la diffusione massiccia della moto elettrica, perché permetterà di recuperare tutta l’energia generata dalla frenata. Credo che potrebbe contribuire a far fare il salto alla mobilità elettrica su due ruote, al pari di batterie più capacitive”.

Il futuro vedrà anche l’arrivo di impianti frenanti in carbonio?
“No, nemmeno sulle supersportive stradali più estreme. L’applicazione del carbonio è, oltre che costosa, troppo vincolata all’uso in finestre di temperatura e in condizioni climatiche stabili. Se non entra in temperatura, la moto non frena, se surriscalda invece si lega con l’ossigeno ed evapora. Resterà un materiale legato ai freni della MotoGP”.

E la carboceramica?
“Potrebbe rappresentare una libidine per le moto da 40-50mila euro. Finora non siamo riusciti a svilupparla perché non siamo arrivati a raggiungere performance e pesi che abbiano un senso per un uso stradale”.

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