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I viaggi dei lettori

Diario di viaggio: da La Spezia a Pesaro

il 29/10/2003 in I viaggi dei lettori

Una pausa dall’università, un itinerario di massima aperto a ogni deviazione, un Ducati Monster: ecco gli ingredienti di un coast to coast all’italiana, sulle orme di un ‘tale’ Kerouac…

Diario di viaggio: da La Spezia a Pesaro
Arezzo - il Duomo


Vacanza: è una parola strana e fuori luogo se penso che ormai l’estate è passata. L’autunno ha appena iniziato a farsi spazio fra le giornate calde, con i suoi temporali e i suoi colori: luminosi e secchi come l’oro e il marrone.
Ma a volte la fine delle sessioni d’esame all’università può far male, e se si pensa che il mio cervello è composto da due neuroni, ci può stare anche l’idea di un revival casereccio di Kerouac: un “on the road” equipaggiati con Ducati Monster 620 dark, gomme nuove e tanta voglia di scappare per una settimana dalla normalità.


In un giorno butto giù l’itinerario ideale e preparo l’equipaggiamento. Il mattino successivo sono pronto a partire: alle otto e mezzo il sole fa capolino raramente fra le nuvole, e un freddo pungente mi accoglie appena uscito di casa. La prima parte dell’itinerario mi dovrebbe portare da Cremona a La Spezia.
A Parma imbocco la statale regina dei passi tosco-emiliani, la SS 62, per il passo della Cisa. Le nubi scompaiono mentre un caldo estivo inizia ad allietare il primo giorno, facendomi apprezzare i tornanti, le curve ampie e i rettilinei che portano fino a Berceto. C’è solo un vento fastidioso nel tratto emiliano che porta delle foglie secche sul manto stradale, ma superato il passo, è come entrare in una regione in cui la primavera continua a farla da padrona.


Poi, finalmente, il mare di La Spezia. Un mare dolce che fa da contraltare alle asprezze delle Cinque Terre, poco distanti da qui. Una sosta e una visita al porto per poi ritornare ad Aulla, direzione Garfagnana. I castelli dei Malaspina puntellano la Lunigiana, da qui fino a Piazza al Cerchio. Per arrivarvi prendo la statale che porta al passo del Cerreto, deviando a destra prima di Fivazzano, in direzione Gassano. La strada non è certo di quelle per grattare ginocchia e gomiti, ma con un cielo celeste come non ce ne sono altri al mondo, e una foresta ricca di storia e colori dorati, nessuno qui avrebbe voglia di correre. Inizia un sogno dove vengo riportato indietro di una decina di secoli, in quel pieno Medioevo dove pellegrini e cavalieri viaggiano per piccole strade verso castelli e chiese romaniche. I paesi sembrano raggrumati sui colli di questa vallata dove le torri campanarie delle chiese puntellano la foresta. Codiponte lascia vedere il retro delle sue case, tutte raccolte sulle vie interne, così come anche Casola in Lunigiana, protetta a qualche chilometro di distanza dal castello di Regnano, che sembra quasi buttato distrattamente sulle pendici del monte Peci, che chiude la valle dell’Aulella. Il tratto da Casola a Giuncugnano è il più godibile a livello di guida, ed è qui che mi fermo a scattare qualche foto al panorama. Vengo raggiunto da una coppia di svizzeri che immortalo in uno scatto. Sono davvero simpatici, si fermano subito e iniziamo una piccola conversazione in un inglese zoppiccante. Andare in giro in moto, in fondo, è bello anche per questo (quindi se beccate dei riders in giro, non fate i musoni. Magari scoprite che hanno una sorella carina!).
Arrivati a Giuncugnano (seguendo sempre le indicazioni per Lucca e Castelnuovo) si passa alla discena in Garfagnana. La strada non è ancora adatta alle pieghe al limite, anzi, su qualche tornante da terza, consiglio di suonare prima forte il clacson. Io mi sono visto passare un tir a sei assi due centimetri di fianco al casco. Bello: dev’essere la stessa emozione che prova un moscerino schivando un parabrezza.


Scivolo in Garfagnana improvvisamente: passata Piazza al Cerchio, si possono alzare gli occhi dalle curve verso il panorama, accorgendosi che i colori dorati sono scomparsi, lasciando il posto a foreste di abeti sempreverdi. La strada dirada e diventa anonima (e piena di lavori in corso), per portare con un ultimo sussulto di vivacità a Castelnuovo di Garfagnana. La città si è espansa per tutta la vallata del Serchio, e di molto bello è rimasto, più che il paesaggio contaminato, il borgo centrale con le sue viuzze ristrutturate, la casa-fortezza dell’Ariosto e il ponticello romano per le coppiette innamorate. Mi trattengo un po’ ad osservare la vita della Garfagnana, le ragazze (E ti pareva!) e le pochissime moto che girano nella zona. Uno yogurt al cioccolato nella pasticceria sul belvedere, tanto per conversare un po’ con la bella cameriera (Mica posso sempre andare avanti a birra, no?) e poi riparto. Sì, ma per dove? Pistoia sarebbe la mia direzione ideale, ma c’è qualche cosa che mi chiama da un’altra parte. Decido che in viaggio la cartina è solo un aiuto in caso di… divagazione straordinaria (Quanti di noi hanno mai ammesso pubblicamente di essersi persi?), e punto verso Castiglione di Garfagnana. Chi di voi conosce questo borgo-fortezza e ha già fatto questa strada, sa che mi dirigo verso il passo delle Radici, rituffandomi nell’oro della foresta dell’Appennino tosco-modenese.

Se la Cisa è la regina delle statali del tosco-emiliano, il passo delle Radici è il re. Un asfalto senza pecche, foglie o buche, un misto stretto con pezzi ad ampio respiro, per arrivare poi a 1529 metri, dare un occhio alla cresta appenninica che separa da Pievepèlago, riprendere fiato e tuffarsi nella discesa appena riasfaltata! Non mi sono divertito: di più!!! Arrivo a Pievepèlago con la mano sinistra dolorante, da tanto ho usato il cambio nelle ultime ore. Ho solo poche foto di questa strada, perché è davvero stupido fermarsi per apprezzare il paesaggio. Si può fare una decelerazione su qualche pezzo di rettilineo per vedere i boschi ombrati da nebbiolina di umidità, ma fermarsi, no grazie. E’ troppo bello così. So di essermi perso molte belle cose, ma quando con il Monster puoi grattare per terra marmitte e pedane con una certa sicurezza, cosa ti serve di più?


Appena prima di Pievepèlago vi consiglio di rallentare il ritmo, perché è molto probabile incontrare una pattuglia di simpatici tutori dell’ordine, pronti ad apprezzare le vostre cavalcature e l’imbottitura dei vostri portafogli, nel caso in cui ci fosse anche un moschino di troppo sul vostro fanale anteriore. Entro a Pievepèlago per bere un caffè e trovare del ghiaccio, sgranchire le gambe e fumare una sigaretta (nel mentre ho scritto una sequela di bestemmie in curdo che la Ducati inserirà sul libretto uso e manutenzione del mostro, alla voce “frizione”). Do una controllatina al mio mezzo, che si è un po’ sporcato a causa dei cantieri incontrati lungo la strada. Diciamo che i cerchi da grigio antrace (andava di moda quando l’ho comprato) sono diventati nero fumo, mentre la testa orizzontale da grigia e basta è diventata un giallastro fango radioattivo. Mentre risalgo in moto i miei glutei ringraziano allegramente dio della comodità delle selle Ducati, e mi preparo psicologicamente per la statale dell’Abetone. Il pezzo di salita da Pievepèlago ad Abetone non riesco a gustarlo bene, perché ormai è tardi (sono le sei, sole calante e freddo pungente) e non ci si vede molto bene di sera su questa bellissima strada immersa nella foresta; ma soprattutto perché, mentre sono fermo a fare benzina, vedo due pazzi (è l’unica parola adatta) scendere come un missile la statale a bordo di un sidecar Ural. Nei dieci minuti successivi cerco di riformulare tutte le leggi fisiche esistenti per capire come cacchio facevano quei due ad andare così forte.


Mi fermo su ad Abetone, all’ostello della neve. E’ un ostello un po’ fuori dal paese (1 km verso Pistoia) ma è un posto valido e il tizio che lo gestisce è anche simpatico. Per mangiare consiglio “il grillo”, piccolo e un po’ scomodo, ma si mangia bene e si paga poco. Diciamo che in confronto al superristorante che c’è di fronte, questo ha più della bettola dimenticata da dio, ma alla fine l’importante è la sostanza, non la scena (è per questo che non comprerò mai un sidecar Ural, con tutto rispetto per quei poveri malati di mente che vanno in giro con un mezzo che sta in piedi perché tirano i quattro venti: altro che la Carlucci quando si lanciava dai palazzi con il bunjee jumping, quello che scendeva l’Abetone con l’Ural, a casa si deve fare il bagno nella vasca dei Piranha!!!).

 

Al mattino vengo svegliato dalle nuvole e mi raccomando ad una schiera di santi che potrebbe riempire la rosa dell’Inter. Data la lunga durata del momento spirituale, cominciato alle sette di mattina, alle nove sono “già” in sella (ho saltato i santi di rincalzo), pronto ad affrontare la discesa dell’Abetone. Non mi preoccupo delle gomme fredde, dell’asfalto umidiccio e del mio cervello ancora insoccato (addormentato, in cremonese). Mi lancio in un festival di S e curve veloci, su un asfaltatura perfetta. Affronto i tornanti un po’ troppo in allegria, infatti rischio di stamparmi contro un camion che li stava affrontando molto più piano di me. C’è una bellissima atmosfera da romanticismo ottocentesco: la valle è seminascosta da una foschia leggera, da cui spuntano alcune cime di abeti, mentre scivolo lungo il crinale del Libro Aperto (si chiama proprio così: è il crinale a nord della statale dell’Abetone. Vedere per credere) fino ad entrare nella valle del Sestaione, a S. Marcello Pistoiese, per una sosta caffè in centro al paese. Mi affianco ad un gruppo di cacciatori toscani che si lanciano frecciate ironiche nel loro dialetto divertentissimo. Guardo passare la gente e le ragazze (mora occhi neri dell’ambulanza che si è fermata in paese. Se magari passi di qua e leggi, sai chi è quel tizio in moto che ti guardava sabato mattina. Lo so, non siamo dalla Carrà, anche se Masetti ha una zazzera che ricorda vagamente Carramba… se mai ho avuto una possibilità di diventare un giornalista motociclistico, con questa, me la sono giocata!).


Ed ancora giù, verso Pistoia. Una bellissima deviazione è quella per Montecatini e Péscia, ma merita di essere descritta in un altro viaggio. Intanto intraprendo il passo di Oppio, guarda caso trovo la nebbia (non so dove avrei potuto trovarla altrimenti), ma appena dopo Piastre, a qualche chilometro di distanza, si apre la piana fiorentina. Se siete fortunati (quindi non come me), potrete vedere Pistoia, Prato e, con un buon cannocchiale, Firenze. Riprendo la discesa e mi ritrovo a Pistoia, una bellissima città, comune medievale acerrimo nemico di Prato e Firenze, piena di vita e divertimento. Salgo in cima alla torre del duomo per ammirare tutta la città e il mercato (al sabato). Non è che la salita lungo la scalinata sia impegnativa, ma forse mettendo una corda da scalata all’esterno si risparmiano un po’ di forze e si rischia di meno la vita. Mi sorprendo di non aver trovato qui il pazzo possessore del sidecar Ural incontrato all’Abetone. Per la discesa si può scegliere tra il paracadute o le scale, una vera scommessa con la morte. I simpatici gradini (al buio, perché sia mai sprecare un po’ di luce) scivolosi e utilizzati come toilette dai piccioni pistoiesi (razza alquanto bastarda) presentano alcune trappole micidiali: saranno presenti nel prossimo tomb rider come prova di abilità finale, quindi non posso svelarvi i trucchi per scendere indenni dalla torre.
Mi fermo a mangiare in un bar dove posso apprezzare la bontà dei salumi e del pane fiorentino, ovviamente contornato da una sana birra media. Poi nel pomeriggio, dopo aver visitato il centro storico, la chiesa di S. Andrea e la fortezza di S. Barbara (dove, all’interno del parco, si può schiacciare un pisolino), mi dirigo verso Prato.


La città mi delude un po’. Il duomo, il palazzo comunale e il castello dell’imperatore Federico II non reggono in confronto con il centro storico della città precedente, ma soprattutto a deludermi è la freddezza della gente. Faccio solo un incontro simpatico con un harleysta e la sua passeggerina, con i quali scambio qualche chiacchiera prima di partire verso il mio albergo. Grazie a dio scopro che a Prato c’è comunque qualcosa di bello: la strada che porta a Carmignano, sul colle Albano, in direzione Empoli. La percorro tutta fino a Vitolini, quando la spia della riserva mi avverte che non ho ancora molta autonomia. Ritorno in albergo e scopro che a Carmignano (l’ultimo weekend di settembre) c’è il palio di S. Michele, detto Palio dei ciuchi. Cosa sono i ciuchi? Gli asini, quindi è la mia festa!!!
Non si tratta solo di una rievocazione storica, ma di una vera lotta artistica fra le quattro contrade del paese: i verdi, i bianchi, i celeste e i gialli. Ogni contrada prepara una sfilata con quattro o cinque carri, e gli abitanti, tutti o quasi, si esibiscono in balli o scene molto coreografiche e meritevoli di essere viste. Infine viene il palio vero e proprio: una corsa lungo le vie principali del paese dove si confrontano degli asini cavalcati dai fantini dei quattro rioni.


Dopo essermi divertito per tutta la sera, ritorno all’albergo, attacco il cellulare alla presa della corrente e mi metto a dormire. Al mattino però c’è qualcosa che non va. La batteria del telefonino non si è caricata, non va la tv e neppure la luce. Sarà saltata la corrente nell’albergo, penso. Invece è la fatidica mattina del 28 settembre 2003. Scopro che c’è stato il black-out quando, arrivato al primo distributore self-service, non funziona niente. Informato da un simpatico signore divertito dalla mia faccia (a cui brucio la casa e rapisco moglie e figlie) decido stupidamente di andare avanti verso Firenze: “prima o poi un posto dove c’è la corrente lo trovo!”.
No. Arrivo al primo distributore disponibile in folle, pregando in otto lingue diverse di non trovare incroci. Però ho un po’ di fortuna. Aspetto solo un’ora prima di poter fare benzina. Grazie Enel.
A questo punto dovrei descrivervi Firenze. Ma sinceramente l’impresa è troppo difficile: non è possibile dire della bellezza di questa città, della sua aria naif e un po’ superiore, delle strade dove arte, musica e storia si rincorrono per cercare di distrarre una ragazza, che cammina ammirando la cupola del Brunelleschi o il Perseo del Cellini (nella foto in basso). E’ impossibile dirvi quanto sia bello vedere il Palazzo Vecchio nella sua imponenza, e la Loggia della Signoria che protegge i marmi di statue a cui manca solo la parola. Poi il David di Michelangelo, il Ratto delle Sabine del Gianbologna, la statua equestre di Cosimo I. Tutta quest’arte resta impressa nella memoria come la moltitudine di gente di tutto il mondo che viene in questa città. Credo proprio che Firenze meriti una settimana almeno solo per sé.

Pontassieve. A Sieci trovo un raduno di Ferrari di fronte al pub “Croce azzurra”, abituale ritrovo dei motociclisti che salgono e scendono dal Muraglione. Mi fermo un po’ a parlare con iln gestore, mentre si cerca di vedere la gara 2 della SBK (definire uno scandalo il fatto che le gare non sono state trasmesse in diretta neppure da Eurosport è poco). Intanto mi godo la bellezza delle rosse di Maranello parcheggiate appena fuori (fra cui si mischia improvvisamente una rossa di Borgo Panigale, scesa come un fulmine dal Muraglione). Infine arrivo a Pontassieve, punto di partenza dei passi che collegano Firenze con Forlì e Arezzo. Il piccolo borgo merita una visita e soprattutto una cena al “Girarrosto”. Ho avuto anche la fortuna di pernottare all’albergo “Locanda Nova”. Il biglietto da visita di questo piccolo albergo recita così: “il viaggiatore è il viaggio. Ciò che vediamo, non è ciò che vediamo, ma quello che siamo”. Una massima filosofica da utilizzare come definizione di “mototurismo”.
Puntuale come un orologio svizzero, la pioggia mi attende al risveglio. Non sarebbe una bella giornata per partire alla volta di Arezzo, ma un buon antipioggia e tanta voglia di moto mi spronano. Prendo il passo della Consuma per arrivare al , prima di Poppi. E’ stata la residenza di un poeta come D’Annunzio, che qui ha composto l’Alcyone, ma l’ingresso alle rovine è vietato a causa delle mura pericolanti (dove siano pericolanti lo sanno solo loro, visto che io sono entrato e i muri mi hanno tenuto). La strada della Consuma non è bella, almeno in queste condizioni. Fare un paragone con le strade vicine, come il Muraglione, è un po’ impietoso, ma rispetto ad altre della stessa classe come il Lagastrello e il giogo di Scarperia (che all’inizio fa davvero pena: cosa ci vuole a riasfaltare una strada?), si rivaluta molto.

Arrivo a Poppi, nella piana di Campaldino, e visito il castello dei conti Guidi, dove c’è anche una sala di modelli degli strumenti da guerra medievali molto carina. Bibbiena, la città successiva, non mi attira molto, anche perché c’è da fare altra strada: il valico dello Spino, per andare a Pieve di S. Stefano. Ci si inerpica fra gli abeti e i prati, contornati dalle nuvole basse che mi sfiorano il casco. E’ un paesaggio più alpino che appenninico, molto cupo e rude nei colori. Il fondo non è dei migliori, ma se c’è il sole, ci sono dei tratti in cui ci si possono togliere degli sfizi. Passo Pieve S. Stefano e, seguendo il percorso della vecchia Tiberina (che scorre con curve e rettilinei di fianco alla superstrada) raggiungo il bacino artificiale del Tevere, a Madonnuccia. Ha smesso di piovere da poco, il cielo è ancora cupo, viola, mentre le acque del lago sono increspate dal vento. C’è una calma surreale, una specie di quiete prima della tempesta che mi lascia di sasso in contemplazione della superficie del lago. Da visitare con ragazza al seguito. Se non siete capaci di conquistarla con questo romanticismo da film in bianco e nero, vi conviene lasciare perdere.
Arrivo a Sansepolcro nel primo pomeriggio, divertendomi sulle ultime curve della Tiberina. Ormai ha smesso di piovere, potrei essere fortunato e trovare qualche strada non bagnata. Devio per Anghiari lungo la statale della Libbia. Si arriva al valico di Scheggia, una bella strada su cui divertirsi parecchio. E’ appena stata riasfaltata in molti punti e merita un’andata e un ritorno. La prima per imparare, la seconda per pelare le marmitte. Non ha pezzi davvero difficili, e permette di andare via tranquilli giocando di seconda e terza.
Spunto in val di Chiana sotto all’imponente figura di Arezzo, che mi attende con le sue chiese, la sua musica e i suoi locali notturni. Certo, al lunedì non posso pretendere una gran vita, ma ce n’è a sufficienza per divertirsi.

Riparto da Arezzo al mattino dopo aver fatto conoscenza con i ragazzi dell’ostello (il più simpatico è un tedesco che, dopo essersi fatto rubare la valigia a Firenze e il portafogli a Siena, sorrideva ancora contento della vita, volendo andare a visitare il Casentino in treno!). La direzione è Pesaro, per concludere il viaggio, visto che l’università è già cominciata e la liquidità comincia a scarseggiare (ma soprattutto per il secondo motivo). Da Arezzo a Città di Castello, è una tragedia: girare con la pioggia si può, con la foschia anche, ma con la nebbia fitta in stile bassa padana (la nebbia di casa mia) è da suicidio. Arrivo a Città di Castello, ma non riesco a vedere niente, nel vero senso della parola: nebbia e freddo.
Decido di ripartire subito per il passo di Bocca Trabaria. Dirigo quindi verso Sansepolcro sempre seguendo il tracciato della Tiberina. A S. Giustino giro a destra, verso Urbino-Urbania. Salgo, salgo e salgo ancora, ma la nebbia se possibile si fa più fitta. E’ un calvario, un purgatorio dover andare piano su questa strada che mi sembra davvero bella. Poi, tutto d’un colpo, emergo in un cielo azzurro. Se il paradiso è davvero come ce lo spiegavano da bambini, allora la sensazione che ho provato in quel momento è quella di un angelo. Passo dal grigio al bianco, dal freddo a un tiepido calore che inizia a investirmi. Il sole accecante, di colpo. Un sole da estate e un cielo celeste. La strada asciutta, nessuna macchina all’orizzonte.


Mi fermo prima della Bocca Trabaria, per fotografare uno spettacolo che non mi è mai capitato di vedere. Mi sento su dei colli in riva al mare. Dopo la contemplazione ributto la moto a capofitto nelle curve, con una gioia nel cuore che mi era un po’ mancata nei giorni di pioggia. E’ come rinascere con la voglia matta di divertirsi. Pennello le curve una dietro all’altra, ritardo qualche staccata solo per sentirmi catapultato in avanti mentre i freni cercano di farmi restare in traiettoria. In poche parole, godo del piacere di guidare. L’emozione di questa strada incorniciata nel bianco delle nuvole, nel blu del cielo e nel verde della montagna, per ora non ha paragoni. L’emozione è intensa ma breve, poiché a Mercatello sul Metauro tutto finisce, o quasi. Da qui sono rettilinei “alla padana” per ammirare la valle del Metauro che arriva fino a Urbania e scivola accanto a Urbino.
Però questa strada ha ancora un paio di sorprese. Da Urbania, l’arrivo a Urbino è una goduria. Bella strada, ben asfaltata, in più soleggiata perché le nubi sono scomparse. Il Palazzo Ducale appare come un’allucinazione dopo una curva a sinistra. Tu ti aspetti una fila di casette, una roba ancora simile alla periferia. Invece ti ritrovi di fronte ad un edificio immenso. L’impressione che se ne riceve dalla strada è quella di una scultura imponente nel fianco della montagna. Entro nel centro storico e mi rendo conto che la città è una Parma di montagna. Nel senso che è una città a misura di studente, salite del 25% di pendenza a parte. Quindi locali, parchi soleggiati, chitarristi improvvisati, motociclisti (ma pochi, per la verità, quelli davvero tali. Tanto che non riesco a socializzare con nessuno di loro) ma soprattutto, come a Parma, ragazze, ragazze e ragazze. Una bellezza per gli occhi che si completa con la fortezza dell’Albornoz, il duomo, il collegio Raffaello, la piazza Rinascimento. Qui si respira un cinquecento contemporaneo. Sono rimasto molto impressionato dalla cittadina pesarese (ma sarebbe meglio dire marchigiana, visto che la provincia si chiama di Pesaro e Urbino). Non riesco a staccarmi da qui, mi fermo un po’ gironzolando e faticando sulle stradine del borgo centrale. Purtroppo sto per finire le fotografie, quindi devo risparmiare qualche cosa per l’arrivo, ormai imminente, a Pesaro.


Riprendo la statale di Trabaria, per divertirmi tanto quanto mi è capitato sul passo delle Radici e sull’Abetone. Ormai ci sono: una piccola deviazione per Tavullia (che idiota: Rossi è in Giappone!) e poi vado alla ricerca del lungomare pesarese. Eccomi qui, davanti al mare che bagna il lato destro della nostra penisola. Dal Ligure all’Adriatico. E’ una bella sensazione questa: ho realizzato il mio primo viaggio in moto serio senza problemi, senza troppe paure, divertendomi, conoscendo gente nuova e a volte bizzarra, ma soprattutto percorrendo strade bellissime, che spesso i tedeschi si sognano la notte. Ogni strada mi ha portato in un paesaggio diverso. Radici nell’Italia più nascosta, l’Abetone in un paesaggio alpino, da Prato a Carmignano mi sono ritrovato in una stradina del sud Italia o della Grecia, sulla Consuma mi sembrava di essere nella Francia del nord, sulla Verna ero in una Scozia piovosa, sulla Trabaria… bè, quante strade esistono che ti portano sopra alle nuvole?
Grazie a dio i turisti e i mototuristi stranieri pensano che l’Italia sia fatta di poche strade e città. Non si sognano nemmeno che ci sono posti nel nostro paese che, nella loro piccola intimità, riescono a donare molto di più dei grandi capoluoghi dell’arte e delle grandi strade famose.


Infine volevo fare un discorso per le deviazioni: infinite è l’unica definizione possibile. Il mio percorso totale è stato di 1150 chilometri, 150 dei quali di deviazioni e “allegri cambi di programma” (mi sono anche perso, sì. Ma non è il bello della motocicletta non avere una meta fissa?). Non ve ne ho citata neanche una, perché o scrivo un romanzo (ma se l’ha fatto Kerouac, posso farlo anch’io) o rischio di non riuscire a finire questo articolo e farlo pubblicare!
Le mie vacanze si chiudono qui, purtroppo l’università chiama. Il Monster si è rivelato un vero compagno affidabile, al contrario di ciò che scherzosamente afferma Brazov. Divertente in ogni situazione, con una buona coppia per fare tutto, soprattutto se si è principianti e mototuristi. Una pecca notevole è stata quella delle borse laterali semirigide Ducati Performance. Non solo perdono colore, ma macchiano anche le marmitte (vi raccomando caldamente di non farle mai sabbiare: l’effetto estetico è da favola, ma se vi succede una cosa del genere imparerete a bestemmiare in nepalese).
Certo, il Monster, e le Ducati in genere, sono moto da amare: non bisogna badare alle vibrazioni sul manubrio e sulle pedane a velocità autostradali; al cupolino minimalista da arte postmoderna (cioè con una utilità pari a 0); alla frizione per l’allenamento degli avambracci di Hulk; alle pedane e alle marmitte che grattano terra se si piega troppo (con grasse risate di chi può pelare le gomme senza danni, mentre noi per togliere la cera dall’ultimo centimetro dobbiamo amputarci i piedi); alla chiave che, se si bagna il blocco accensione, fa fatica ad entrare e sono cavoli amari per un buon dieci minuti. Aggiungiamoci che il serbatoio non è il massimo (200 Km scarsi di autonomia) e che l’unico posto in cui non trafila olio è lo specchietto di sinistra (ma non ne sono totalmente sicuro): salta fuori un quadro non proprio a rose e fiori, però una moto va amata e deve avere un carattere. Se no perché mai esistono ancora i Guzzi, i sidecar Ural e le Harley?
Lampeggi e saluti a tutti. Ci incontreremo. Sulla strada, ovviamente!

Diario di viaggio: da La Spezia a Pesaro
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