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Correre in moto è più faticoso che giocare (a calcio) in serie A, parola di Annoni

di Marco Gentili, foto Cristiano Morello il 28/11/2017 in Altri sport

Enrico Annoni, il calciatore soprannominato Tarzan, bandiera di quel Torino che nel 1992 sconfisse il Real Madrid, una volta appese le scarpette al chiodo, in attesa di sedersi di nuovo su una panchina per allenare, ha riscoperto la sua vera passione, quella per le moto. Le ha, le usa, e ci corre

Correre in moto è più faticoso che giocare (a calcio) in serie A, parola di Annoni
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Se chiedi a un bambino cosa vuole fare da grande, la risposta media è "il calciatore". Poi ci sono ex bambini che alla stessa domanda avrebbero risposto "il pilota di moto" ma alla fine si sono ritrovati a calcare ad alto livello i campi di Serie A. Forse se suo padre Fulvio, meccanico di professione, lo avesse incoraggiato un po' di più invece di proibirgli la moto, oggi Enrico Annoni sarebbe un ex pilota. Invece è ancora per tutti Tarzan, il difensore di quel Torino che nel 1992 sconfisse il Real Madrid in semifinale di Coppa Uefa, perdendo la finale con l'Ajax in virtù di un doppio pareggio che allora premiava il computo dei gol segnati in trasferta.

Oggi Tarzan, in attesa di sedersi di nuovo su una panchina per allenare, ha riscoperto la sua vera passione, quella per le due ruote. In garage, nella sua casa nel Comasco, ha un'Harley-Davidson Softail Heritage, una MV Agusta Brutale 910 R, una Ducati 1098R e una Hypermotard 939SP che si è regalato per lo scorso compleanno.
 

Annoni, come nasce la passione per le due ruote?
"Mio papà ha sempre avuto un'officina a Capriano, una frazione di Briosco. Aggiustava e rivendeva moto e io trascorrevo le giornate con lui. Quando avevo poco più di 10 anni lo aiutavo in officina e di nascosto gli rubavo delle moto dal concessionario per farci un giro".

Quali sono state le prime passioni?
"Una Bultaco da regolarità, una Aspes da cross e una piccola Italjet".
 

Lui non voleva che lei andasse in moto.
"No. Ho dovuto insistere tantissimo per convincerlo a prendermi un Ciao scassatissimo, che io ho provveduto a sistemare per divertirmi a fare le impennate. Aveva il gas rapido, la sella lunga e l'espansione. Una bomba".
 

Poi è arrivato il calcio, che è diventata una professione.
"I calciatori per contratto non possono fare cose che possano mettere a rischio le gambe, come sciare o andare in moto. Io però ho sempre avuto nel sangue le due ruote. Le ho sempre guidate, anche se non avrei potuto per contratto".
 

La sua prima moto "da grande"?
"Ai tempi del Torino, nel 1992, mi comprai una Harley-Davidson Softail Heritage. Fatta eccezione per parafango e motore, è stata rifatta interamente poco a poco, dal manubrio alla decorazione del serbatoio. Da un lato c'è una pantera, animale che ho sempre amato, mentre dall'altro c'è un'esemplare femmina con un cucciolo. Per me rappresentava la famiglia: io, mia moglie Paola e mia figlia Federica, che oggi ha 26 anni".
 

È la stessa moto che vediamo nel suo garage? 
"Esatto, me la sono sempre portata dietro. Per me è una specie di feticcio, non la venderò mai. Addirittura, nei miei anni alla Roma, la usavo anche per andare da casa a Trigoria, dove c'è il centro sportivo della società giallorossa". 

 

Mazzone, il suo allenatore dell'epoca, non l'avrà presa benissimo…
"Ma io infatti mica la guidavo… Arrivavo a 400 metri dai cancelli, la spegnevo e la portavo nel parcheggio spingendola. Di fatto nessuno avrebbe potuto dirmi nulla".
 

Allora c'erano altri calciatori che amavano andare in moto, anche se in modo clandestino?
"Ce ne sono sempre stati. Ai miei tempi il portiere del Parma Claudio Taffarel aveva un'Harley-Davidson, così come il numero 1 dell'Inter Walter Zenga. Bastava usare la moto con discrezione, non essere colti sul fatto da nessuno della società ed essere fortunati nel non fare incidenti. Poi all'epoca i club non erano così ossessivi come oggi nei confronti dei propri tesserati".
 

Il giorno in cui tornerà ad allenare e un suo calciatore dovesse presentarsi agli allenamenti in moto, cosa direbbe?
"A me non darebbe alcun fastidio. Io stesso adesso vivo in moto… Bisogna vedere come la pensa il club".

Lei è per tutti ancora Tarzan. Ha ancora questo soprannome scritto sulla tuta da moto…
"Me lo dettero i tifosi del Torino. Allora avevo i capelli lunghi, in campo ero un vero combattente e facevo parte di una difesa tostissima, assieme a Pasquale Bruno detto 'O'Animale' e Roberto 'Rambo' Policano".

Un bel trio ignorante.
"A dire il vero io ero quello che menava meno di tutti. Policano era senza dubbio il più cattivo dei tre (ride, ndr), Bruno aveva una brutta fama ma era uno che le dava per primo per non prenderle..."

Facciamo un salto nel calcio di allora. L'avversario più difficile da marcare?
"Gullit, ancor più di Maradona. Nei primi anni al Milan aveva una forma fisica pazzesca, impossibile stargli dietro". 

L'allenatore cui deve di più?
"Emiliano Mondonico, uno che sapeva essere psicologo del - la squadra, un grande motivatore". 

Il più grosso rimpianto?
"Aver perso la Coppa Uefa 1993 contro l'Ajax. Dopo il pareggio per 2-2 a Torino, al ritorno attaccammo per tutta la partita, Sordo prese una traversa clamorosa e Walter Casagrande sbagliò di testa un gol che era già fatto. Con lo 0-0 perdemmo la finale senza essere usciti sconfitti dal campo. Ancora oggi non riesco ad ascoltare We Are The Champions dei Queen. Quella canzone mi ricorda la sera della finale, con gli olandesi che la cantavano in mezzo al campo".

La cosa ci cui va più fiero?
"Essere ricordato come una bandiera di quel Torino. Ed essere stato il primo italiano a vincere uno scudetto all'estero, coi Celtic di Glasgow nel 1997-98".

La sua partita della vita?
"Sembrerà strano ma è una sconfitta, il 2-1 patito a Madrid nella semifinale di andata di quella Coppa Uefa maledetta. Sin dall'inizio siamo stati intimiditi dai tifosi, che bersagliarono il nostro pullman spaccandone i vetri con lattine di birra piene. Poi ci hanno fatto passare a piedi sotto la loro curva, con Pasquale Bruno che rispose ai madridisti facendo dei gestacci. Ma tutto ciò ebbe l'effetto opposto: siamo scesi in campo carichi come leoni, senza restare in soggezione di fronte a una delle squadre più forti in circolazione. Al ritorno a Torino non c'è stata partita, e siamo andati in finale".

Torniamo alle moto.
"Dopo il ritiro ho potuto dare libero sfogo alla mia passione. Ho corso subito la Promocup Motard con una KTM 450, poi il trofeo Triumph con le Speed Triple, evento itinerante che seguiva le varie tappe del Mondiale Superbike, e infine due Desert Logic nel deserto della Tunisia".

Ha scoperto la pista in tarda età. Come se la cava?
"Direi abbastanza bene. Sono un pilota veloce ma non molto tecnico. I miei tracciati preferiti sono Monza, Assen e Misano, dove riesco a dare il meglio".

È più faticoso giocare in Serie A o andare in moto?
"In moto, senza dubbio. Però è tutta questione di abitudine: tempo fa, alla fine di un'amichevole in ricordo di Marco Simoncelli, Valentino Rossi mi si avvicinò: 'Ma come fate a fare tutta questa fatica per 90 minuti? Andare in moto è molto più rilassante che giocare a calcio', mi disse".

Quale moto manca nel suo garage?
"Sono tentato da una specialistica da cross, però credo che alla fine sceglierò un'Aprilia Tuono V4 1100".

Se Annoni fosse un pilota, chi sarebbe?

"Carlos Checa. E tra quelli di oggi Chaz Davies".

MotoGP o Superbike?
"Superbike". 

Perché?
"Tra le due discipline c'è la stessa differenza che esiste tra Juventus e Torino. Il Torino è più ruspante, vero, non impostato, appassionato, genuino. Proprio come la Superbike. In MotoGP ci sono troppe restrizioni, i piloti sono troppo distanti dai loro tifosi".

L'intervista è stata pubblicata su Dueruote di Ottobre 2017.

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