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La "Meraviglia alata" di John Britten
La prima moto da corsa realizzata dal tecnico neozelandese fu un prototipo 1000 V2 con telaio in compositi, originalissimo, ma anche con molti difetti
Una delle persone che ha collaborato allo sviluppo di questo progetto è l'ex progettista capo del Team Lucky Strike – Roberts, Mike Sinclair, che all'epoca si occupava dunque delle Yamaha 500 da Gran Premio.
Britten aveva senza dubbio idee molto originali per quanto riguarda l'impostazione ciclistica di una motocicletta e il bello è che riuscì a metterle in pratica. Un primo prototipo motorizzato Ducati dimostrò infatti la validità di questi concetti, ma fu quando Britten incontrò il boss della Denco Engineering, Rob Selby, che il progetto della prima moto da corsa del neozelandese prese forma, nel 1987.
Il propulsore Denco disponeva di grande potenza, oltre a un'ottima riserva di coppia, ma andava ben presto in "affanno" quando veniva tirato al limite. Questo fatto non dove sorprendere: nelle gare di sidecar-speedway il pilota non viaggia per molto tempo con il gas completamente aperto e i rettilinei sono enormemente più corti rispetto a quelli di un circuito asfaltato.
Il motore con misure caratteristiche di 87 x 84 mm non era dunque adatto per l'impiego cui Britten intendeva destinare la propria moto, così, su consiglio del mago del tuning, il californiano, Jerry Branch, il bicilindrico Denco fu completamente aggiornato. La cilindrata rimase di 999 cc, ma le misure di alesaggio e corsa divennero di 94 x 72 mm, secondo le specifiche disposte da Colin Lyster, dalla cui fertile immaginazione presero forma alcune tra le più interessanti moto che animarono la scena agonistica britannica durante gli anni Sessanta, come la stessa Lyster 500 da Gran Premio o la Honda 500 di Mike Hailwood, il cui telaio fu appunto opera di Colin.
Le testate a quattro valvole del motore Denco con doppio albero a camme comandato da un giro di cinghie dentate furono inoltre riviste da Jerry Branch, che le fornì di valvole più grandi (31 mm per quelle di aspirazione e 25 mm per quelle di scarico). Quest'ultime erano inclinate tra loro di un angolo di 40°, che all'epoca risultava notevolmente contenuto.
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L'olio del motore a carter secco era contenuto in un bellissimo serbatoio fatto a mano posizionato davanti allo stretto e robusto basamento del motore, che era ricavato dal pieno anziché ottenuto per fusione, al pari delle teste. Il fatto che il motore fosse stato inizialmente concepito per le gare di speedway costrinse anche a rivedere completamente il sistema di lubrificazione. La potenza massima di questa unità era di 120 CV a 9000 giri. Un risultato niente male se si pensa che la Ducati 851 ufficiale con la quale Marco Lucchinelli vinse il primo round del Mondiale Superbike a Donington, nell'aprile del 1988, ne sviluppava 125.
L'intero propulsore pesava appena 55 Kg e aveva un rapporto di compressione pari a 13:5:1, con alimentazione a metanolo e accensione della statunitense Phelan.
Il telaio consisteva in una monoscocca realizzata in fibra di carbonio e kevlar, con il carburante contenuto in un serbatoio di plastica simile a quelli che venivano impiagati in Formula 1. "Il successo dell'imbarcazione neozelandese K27 nell'America's Cup di Perth, che aveva uno scafo realizzato con una tecnologia simile, mi ha spinto a costruire una motocicletta con il telaio in fibra composita di carbon-kevlar. – spiegava Britten - I due ingegneri coinvolti nel progetto K27 hanno avuto modo di dare un'occhiata ai disegni della mia moto prima che fosse realizzata e ne sono rimasti colpiti, fornendomi alcuni importanti suggerimenti per la relativa messa in opera. Da alcuni calcoli è emerso come la rigidità della struttura sia tre o quattro volte superiore rispetto a quella di un telaio con tubi al cromo molibdeno di un pollice di diametro".
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La monoscocca della Britten consisteva di 26 elementi separati uniti insieme e dal peso totale di 12 Kg. Questa struttura impiegava il motore come elemento semistressato, visto che di fatto collegava la parte anteriore con quella posteriore della moto. Il perno del forcellone era infatti infulcrato direttamente nel carter, in modo tale che il tiro catena rimanesse pressoché costante al variare della geometria della sospensione posteriore.
Per realizzare la monoscocca, Britten creò prima un modello in polistirene lavorandolo a mano e prendendo se stesso come riferimento per le misure dell'eventuale pilota, fino ad arrivare al punto di poter replicare il tutto utilizzando un misto di fibra di carbonio, kevlar, schiuma ad alta densità e uno speciale composto, da lui stesso brevettato, per aumentare la resistenza alle vibrazioni. Il risultato finale prevedeva anche appositi passaggi per l'aria, sia per raffreddare il motore (che non era raffreddato a liquido), che per estrarre il calore in eccesso.
Il forcellone era invece in acciaio dalla forma piuttosto insolita al fine di guadagnare rigidità e risparmiare peso.
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Se tutto ciò non vi sembrasse abbastanza, il meglio deve ancora venire: vale a dire la particolarissima carenatura integrale. "I paramani con funzione di spoiler rappresentano la soluzione a un auspicabile aumento di carico dell'avantreno durante la percorrenza in curva. – affermava orgogliosamente Britten – Questo concetto si basa sul fatto che quando il corpo del pilota è vicino ai deflettori, come ad esempio in rettilineo, essi perdono gran parte della loro efficacia, perché il flusso dell'aria è interrotto dalle spalle e dal casco del pilota stesso, mentre quando questo si allontana dal cupolino, vale a dire durante le fasi di staccata, inserimento e uscita di curva, il carico e di conseguenza il grip sulla ruota anteriore aumenta".
Si trattava, in pratica, di una sorta di ala di aeroplano che lavorava al contrario e che diventava efficace solo quando la moto rimaneva piegata in curva, con il pilota rivolto nella direzione opposta. Tuttavia, questo sistema lasciava spazio a qualche dubbio, come nel caso in cui si fossero incontrate delle turbolenze dovute alla scia di uno o, peggio ancora, più piloti davanti…
Come detto, la posizione di guida era stata modellata sulle "misure" dello stesso John e pertanto risultava poco confortevole per i piloti di statura medio-alta. La sella era piuttosto alta e, oltre a caricare le braccia e i polsi di chi si trovava alla guida, non consentiva grossi spostamenti del corpo. Il ponte di comando, poi, appariva abbastanza anomalo, con il piccolissimo cupolino di plexiglas fiancheggiato dai due paramani aerodinamici, che una volta in movimento davano una strana sensazione, simile a quella che si provava sulle vecchie moto con carenatura a "campana".
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Un cambio a sei rapporti avrebbe sicuramente prodotto effetti vantaggiosi su un motore dall'erogazione così discontinua tra alti e bassi regimi.
Inoltre, le molle particolarmente robuste dei grossi carburatori Amal rendevano il comando del caso piuttosto duro. Perciò, non solo era difficile dosare l'acceleratore nelle curve lente, ma questo fatto rendeva la moto abbastanza faticosa da guidare, così come difficile risultava dare il classico colpo di gas tra una marcia e l'altra in fase di scalata. Tuttavia, le prestazioni del bicilindrico a quattro valvole erano davvero impressionanti. La Britten-Denco era capace di accelerare più velocemente rispetto a moto del calibro della Honda RS500 ufficiale di Robert Holden o della Ducati di Bob Brown.
Non si può dire altrettanto, invece, per quanto riguarda il telaio. Almeno nella sua configurazione iniziale, infatti, la ciclistica della moto neozelandese sembrava avere bisogno di un grosso lavoro di sviluppo.
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In ogni caso, anche il settaggio molle e pesante della sospensione posteriore non era certo ottimale: il carico della molla era insufficiente, mentre i freni idraulici risultavano decisamente troppo chiusi, tanto che la ruota anteriore risentiva di un fastidioso chattering nei tratti guidati e nelle frenate al limite dove, viceversa, l'impianto AP- Lockheed svolgeva egregiamente il proprio lavoro, tanto da indurre ulteriori saltellamenti al retrotreno in un'epoca in cui l'avvento delle frizioni antisaltellamento era, ovviamente, ancora lontano.
Infine, anche i famosi deflettori integrati nei paramani non fornivano i risultati per cui erano stati realizzati, o meglio, anche se andavano ad aumentare il grip della ruota anteriore grazie alla portanza, – e a tal proposito bisogna riconoscere che la Britten-Denco risultava davvero piantata in terra nei curvoni veloci – lo facevano comunque a scapito della praticità.
In scia ad altri veicoli o in presenza di vento laterale, ad esempio, la moto si muoveva molto, diventando difficile e stressante da guidare, pur essendo sicuramente molto veloce in rettilineo.
Ad ogni modo, va riconosciuto a John Britten il grandissimo merito di aver realizzato la prima moto da corsa neozelandese. Un prototipo carico di innovazione che ha dimostrato di andare molto forte, nonostante qualche problema di gioventù, e che ha costituito la base per il vero capolavoro di Britten: la V-1000, considerata tutt'oggi, a quindici anni dalla sua creazione, una delle moto belle e tecnicamente ingegnose mai realizzate.
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