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Tricolori 2002: Lucio Pedercini
Alla scoperta dei piloti che hanno vinto il campionato italiano. Il 30enne di Volta Mantovana si racconta a ruota libera: la passione per la moto, la famiglia e il suo grande idolo, Ayrton Senna
Diciamolo francamente. Monsieur De Coubertin non aveva capito proprio niente dello sport. Con tutto il rispetto possibile, il suo motto (“l’importante non è vincere ma partecipare”) è l’ultima cosa che uno sportivo pensa quando scende in gara. E poco importa che sia una corsa nei sacchi o un torneo di briscola.
Così si spiega perché un pilota, abituato alle scene mondiali anche se non da prim’attore, partecipi ad un campionato italiano, che nel panorama della comunicazione conta davvero
poco, con la decisione di chi vuole vincere a tutti i costi.
Questo è l’identikit di Lucio Pedercini, neocampione italiano della SBK, che ha così bissato il successo dello scorso anno. Una partecipazione, la sua, dalla quale aveva tutto da perdere (“se vinci hai fatto il tuo dovere, se ti danno la paga sei un pirla”, sono parole sue), mossa da quella forza che tutti hanno: arrivare primo.
Lucio incarna alla perfezione questo spirito, nel senso puro del termine. Non è uno che alza la voce, che fa polemica, che non si prende le sue responsabilità. Ecco perché, pur non essendo un fuoriclasse, è stimato da tutto l’ambiente.
”Vincere non dà mai fastidio – confessa quasi fosse un reato -. E’ bello essere considerato l’uomo da battere, è emozionante salire sul podio soprattutto quando ti capita poco. Questo titolo italiano per me conta molto. E poi non è stata una passeggiata. Spesso ho dovuto girare su ritmi mondiali per non farmi mettere sotto”.
E’ il tipico orgoglio di chi ha fatto gavetta, di chi non ha mai trovato porte spalancate se non dalla sua famiglia. Sì, perché Lucio la vera fortuna se l’è trovata in casa.
- Non ti sembra originale che il nucleo portante del team sia formato da tuo padre, appassionatissimo di moto che ti segue da sempre; tua madre, udite udite, che è diventata la team manager della squadra; e infine tua moglie che forse è ancora più appassionata di te?
”Mio padre avrebbe voluto correre ma mio nonno minacciava di mettergli le mani addosso. Pensa che la sua prima moto, una Yamaha 350, se l’è comprata a 25 anni, sposato e con due bambini eppure mio nonno voleva rompergliela con una mazza da muratore. Quando ho compiuto 14 anni mi ha chiesto un favore: “fai della tua vita quello che vuoi ma vai in pista e fammi vedere cosa sai fare”. E siccome non ero poi così scarso è nata l’avventura sulla moto e lui ha lasciato il mestiere del camionista per seguirmi ed ora è il responsabile tecnico del team”.
- Mentre tua madre si cura delle faccende organizzative…
”Lei voleva fare la casalinga dopo aver gestito una stireria ma non si sarebbe trovata nessuno in casa. Così ha iniziato a seguirci. Fino a sei, sette anni fa era preoccupatissima quando scendevo in pista. Ora non più. E lei che si occupa della logistica e se la cava molto bene”.
- A completare il quadretto della famiglia tua moglie e un figlio con un nome che è tutto un programma.
”La loro presenza è fondamentale. Mi ha fatto crescere e lo sie è visto anche nel rapporto con mio padre, che non è sempre stato rose e fiore. Ci diciamo le cose in faccia ma finalmente da due persone adulte. Ayrton, mio figlio, è incredibile. Si aggira nei box come fossero casa sua ed ha solo poco più di un anno: pensa che ad Imola voleva rompere la carenatura alla moto di Foti con un martelletto perché la mia era smontata e non capiva perché”.
- Lo hai chiamato Ayrton come Senna, il tuo grande idolo.
”Io credo che sia stato veramente il più grande di tutti. In camera ho una sua gigantografia e colleziono tutto ciò che lo riguarda. Ho un grande rimpianto: non averlo conosciuto. E’ stato emozionante portare il casco con i suoi colori ad Imola. Un’esperienza che non scorderò mai”.
- Altri rimpianti?
”Certe volte basta davvero poco per cambiare il corso degli eventi. Nel ’96 ero vicinissimo a firmare per guidare la Suzuki 500 ufficiale nel motomondiale, con Garry Taylor eravamo d’accordo su tutto. Poi è arrivato il no dello sponsor, la Lucky Strike, che non voleva un pilota italiano, e scelsero Gobert mentre io rimasi a correre con una Roc Yamaha senza
chance. L’occasione della vita che non è più ripassata”.
- Un momento sportivo invece indimenticabile?
”Le virgole incredibili che faceva Wayne Rainey nel curvone a sinistra di Suzuka. Era il 1993 e io le ho viste di persona in pista”.
- Nella SBK hai trovato però la tua dimensione e quella che ti appresti ad affrontare sarà la tua sesta stagione, con obiettivi importanti.
”E’ innegabile che nel 2003, con solo la Ducati come squadra ufficiale, ci siano molti più spazi per noi privati. Credo che se quest’anno l’obiettivo era entrare nei primi dieci, nella prossima stagione si possa puntare ad essere nei primi cinque, almeno in qualche gara. Se poi ci sarà la possibilità di salire sul podio vedrò di non farmela scappare. Il mio miglior risultato in SBK è un quarto posto in gara 1 a Phillip Island nel 2000: è il momento di fare meglio”.
- A 30 anni si può cominciare a pensare ad un futuro non da pilota…
”E’ un pensiero che non mi ha proprio sfiorato. Continuerò a correre finché mi divertirò senza fare brutta figura. Il giorno che mi accorgerò del contrario dirò basta senza problemi”.
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