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Brutti ma buoni: gli scooter “simpatici” che ci hanno conquistato

Christian Cavaciuti
di Christian Cavaciuti il 12/08/2025 in Moto & Scooter
Brutti ma buoni: gli scooter “simpatici” che ci hanno conquistato
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Brutti ma buoni, come i biscotti. Gli italiani sono ossessionati dalla bellezza, eppure in più di un caso si sono lasciati affascinare da scooter non proprio seducenti, ma molto funzionali. Ecco quali

Tanti gli esperimenti discutibili, soprattutto negli anni del boom a cavallo del secolo quando si pensava che con lo scooter si potesse far tutto. Ma anziché ricordare i tanti scooter con l'imperativo del "bel design" ma poco funzionali, oggi vogliamo dedicarci alle idee originali, anche efficaci ma poco riuscite dal lato dello stile, partendo dal momento in cui lo scooter moderno, con la carrozzeria in plastica e la trasmissione a variatore, inizia ad affermarsi anche da noi.

Brutti ma buoni: gli scooter “simpatici” che ci hanno conquistato

1. Peugeot Metropolis SC 50 (1984)

Il nome richiama il celebre film di Friz Lang, e l’aspetto vuole essere futuristico. Ma nonostante il proverbiale gusto francese in fatto di stile, il Metropolis 50 è un accostamento non particolarmente riuscito di linee tese e linee curve, di superfici piatte e volumi pieni. Le linee squadrate, contrapposte alle classiche forme tondeggianti della Vespa, vogliono suggerire un’idea di modernità, confermata dalle frecce integrate nel faro anteriore che però finiscono per apparire come enormi orecchie a sventola. Nato negli Anni 80, segnati dal successo dei mezzi più aggressivi, il Metropolis non piace ai giovani ma conquista i più grandi, diventando un riferimento per la praticità e l’affidabilità, visto che la meccanica è Honda; non a caso il nome verrà ripreso da Peugeot per il suo ambizioso 3 ruote 400 del 2013 dopo che il Metropolis originale era stato accantonato negli anni del rilancio sportivo con i riusciti Speedfight e JetForce. 

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2. Suzuki CP 50 (1985)

Prima di raccogliere enorme successo con i Burgman, Suzuki si affida a proposte di sapore completamente asiatico come il CP, uno scooter disegnato con l’idea di futuro che si aveva negli Anni 80. Molto squadrato e poco aggraziato, resta fedele ai dettami dell’epoca: ruote da 10” e dimensioni supercompatte, ma con un occhio attento alla praticità grazie al portapacchi, alla predisposizione per parabrezza e al discreto sottosella. Aveva tutti i plus di un modello Suzuki: alta qualità, meccanica a prova di bomba, prezzo competitivo. Ma anche un’estetica di fatto improponibile al di fuori dal Giappone, come dimostra il suo scarsissimo successo in Italia.

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3. Honda CN 250 (1986)

Come spesso succedeva, è stata Honda a iniziare un nuovo filone, quello dei maxi-scooter perdipiù lontanissimi da tutto quel che la Vespa poteva essere, sembrare o rappresentare. Siamo nel 1986 e il paradigma dello scooter, la Vespa, ha iniziato a scricchiolare da tempo, ma nessuno aveva mai azzardato un mezzo con queste dimensioni, prestazioni (il monocilindrico 250 4T eroga 19 CV) e anche con questa particolarissima combinazione tra una linea “spaziale” ed ergonomia da poltrona, con la seduta bassissima e le gambe molto distese in avanti. Tanto spazio a bordo (in alcuni mercati viene chiamato “Spacy”, spazioso), sella comoda, baule in stile alto e parabrezza esteso e protettivo, senza dimenticare la strumentazione tutta digitale: il CN 250 sembrava venire dal futuro, un futuro però in cui pareva esserci abbondanza di confort e di tecnologia, ma non di stile: di certo non lo si può definire aggraziato. Forse anche per questo, però, diventa oggetto di culto ed è il primo vero maxi-scooter moderno.

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4. Piaggio Cosa 200 (1988)

In questa rassegna, Piaggio spicca per la capacità di evitare le figuracce più clamorose – pur se non tutti i suoi modelli sono stati memorabili. Ma uno scheletro nell’armadio di Pontedera c’è: la “innominabile” Cosa, che avrebbe dovuto sostituire la Vespa PX portando lo scooter italiano nel futuro. Era la risposta di Piaggio a chi sosteneva che la Vespa in lamiera e col cambio a marce era superata dai sempre più confortevoli e performanti scooter orientali (ma ormai anche europei) in plastica e con cambio a variatore. Presentata in pompa magna a Eicma 1987, zeppa di tecnologia dalla trasmissione migliorata alla frenata idraulica integrale, aveva una carrozzeria affilata, ben raccordata e più aerodinamica. Disegnata dal pur bravo Paolo Martin, fu immediatamente respinta al mittente dai tantissimi oltranzisti della Vespa, che non gradivano la comparsa della plastica in parti della carrozzeria, la linea spigolosa e poco risolta nel bilanciamento tra anteriore e posteriore. Grave il danno economico visti i costi del progetto, anche se in buona parte confluirono sulla vecchia PX dalla cui meccanica la Cosa fondamentalmente derivava; e così la Cosa ebbe il merito, se non altro, di rilanciare le sorti dell’antenata che avrebbe dovuto sostituire, meritandosi un unicum nella classica carta di identità di Wikipedia: “Sostituisce la: Piaggio Vespa PX” e “Sostituita da: Piaggio Vespa PX”.

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5. Kymco Dink prima serie (1997)

Prima di iniziare a dare retta all’importatore italiano, Kymco provò a proporre un’estetica decisamente asiatica con il Dink, ottenendo peraltro un discreto successo. Gli acquirenti ne apprezzavano la comodità, la capacità di carico e le buone prestazioni del motore, ma l’estetica è piuttosto lontana dai nostri gusti: corto, alto, con un enorme sbalzo dei piani sella, plastiche allungate in ogni direzione e tocchi da pagoda cinese qua e là. Non proprio uno scooter che si ricordi per la bellezza, anche se la ricetta tecnica taiwanese mostrava già tutto il suo potenziale, sotto forma di bella maneggevolezza, consumi ridotti e grande affidabilità. Per queste ragioni ebbe comunque un buon successo, restando al centro della gamma Kymco tanto è vero che il nome Dink resta in varie forme nel listino (Grand Dink, Super Dink) ma con estetica decisamente più “globale”.

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6. Aprilia Habana Custom (1999)

Oddio, non si può certo dire che Aprilia in quegli anni facesse cose brutte. Ma la voglia di spostare sempre il limite, si sa, non sempre si concilia col buon gusto. E così dopo il successo con gli scooter sportivi (SR), da offroad (Rally) e futuristici (Area 51), Aprilia ci prova con uno “scooter custom”, dal nome latino e con un aspetto che dovrebbe essere macho: coda allungata, faro tondo e manubrio in tubi largo e spiovente per una posizione di guida all'americana. Un mix discutibile, che in effetti non colpisce nel segno nonostante i tentativi di correggere il tiro con un manubrio carenato. Harley continuò a dormire sonni tranquilli, i concessionari Aprilia un po’ meno; ma una svista ogni tanto ci sta. E i proprietari non si lamentarono. Per la cronaca, l’esperimento del manubrio in tubi a vista fu ripreso, con grande successo, da Honda sul PCX e a seguire da molti altri. Come ormai sappiamo, a volte essere avanti non paga.

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7. BMW C1 (1999)

Colpo di genio o fallimento? Sul BMW C1 la discussione è ancora accesa. Molti lo hanno amato e molti lo hanno odiato; chi lo ha amato, lo ha fatto alla follia, sedotto dall’ennesimo approccio anticonvenzionale di Monaco: cella di sicurezza chiusa, cinture di sicurezza, casco opzionale (grazie a una speciale omologazione), tergicristallo e Telelever al posto della forcella. Nonostante la lunga gestazione – mostrato a Colonia come concept nel 1992, arriva alla produzione nel 1999 – il C1 è però stato complessivamente poco capito. A decretarne l’insuccesso non solo le forme e le colorazioni inusuali (del resto caratteristiche della produzione BMW dell’epoca), ma anche limiti tecnici come il baricentro altissimo che rendeva poco intuitiva la guida, le prestazioni tutto sommato modeste del motore 125 o 200 e la posizione del passeggero, relegato fuori dalla cella di sicurezza e quindi anche dal contatto fisico con chi guida.

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8. Yamaha Giggle 50 (2006)

Nel 2006 la sbornia da scooter è ormai riassorbita, ma Yamaha prova comunque a battere una strada diversa con il Giggle, esempio in realtà non così isolato nel mondo asiatico di veicolo di ispirazione “cartoon”. Era un tentativo di rispondere all’Honda Zoomer con un mezzo altrettanto originale e di sdoganare il motore 50 4T, ma fallì: nei forum la seduta venne paragonata a quella di un sanitario, e nonostante la presenza anche qui dell’iniezione elettronica le prestazioni del 50 3 valvole Yamaha erano inferiori a quelle, già modeste, del motore Honda. L’originalità estetica non pagò, e neppure l’aura di Valentino Rossi che lo impiegò nel paddock riuscì a rovesciare le sorti del Giggle che rimase un paradigma di “brutto scooter” nonostante fosse pratico (ben 33 litri nel vano sella) e funzionasse, nel limite delle sue prestazioni, davvero bene.

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9. Askoll eS (2015)

Esattamente 10 anni fa entrava in produzione l’eS1, il primo scooter di un’azienda che nessuno aveva sentito nominare, Askoll. Di elettrico si parlava da tempo ma nessuna proposta era stata veramente convincente: maxi tanto ambiziosi quanto costosi, cinesi di pochissime pretese e qualche sporadico esperimento europeo. Ci prova questa azienda veneta, senza esperienza nel settore (produceva motori per elettrodomestici ed acquari) ma con un progetto semplice, chiaro e realizzato – in Italia – con la massima qualità possibile. Carte che gli frutteranno un successo duraturo, mentre la linea lascia sulle prime perplessi: senz’altro originale, senz’altro “no frills”, sembra un incrocio tra un Ciao e una Vespa, con linee squadrate e lo scudo che si ferma a metà dopo aver sovrastato la forcellina a piastra singola. Un’estetica non facile da digerire, ma anche in questo caso le qualità del veicolo riescono a renderlo un classico.

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10. CeZeta 506 (2018)

Praticamente sconosciuto in Italia, lo cito per essere stato uno dei pochi a guidarlo, in un’avventurosa presentazione notturna nei giorni di Eicma 2018. Si proponeva di riprendere la linea di uno storico scooter cecoslovacco, il CZ 501, rivitalizzandolo con soluzioni moderne a partire dal powertrain elettrico. Non leggero ma molto abitabile, il 506 aveva un feeling particolare, anche per la forcella a ruota tirata dalle geometrie (al momento della mia prova) ancora da mettere a punto. L’idea era sicuramente interessante, l’effetto wow assicurato (anche se magari l’esclamazione non era proprio “wow”) ma la linea da Guerra Fredda per quanto fascinosa, il costo di allestire un veicolo ben fatto (quasi 13.000 euro di listino) e le generali scarse fortune dell’elettrico ne hanno tarpato le ambizioni; del resto in madrepatria già il 501 di epoca sovietica era soprannominato “maiale”, non esattamente un complimento. Esperimento andato male, ma CeZeta resta comunque attiva come produttore di veicoli elettrici dal look più convenzionale.

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