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100 anni di Moto Guzzi in 10 moto-icona

Fabio Tagliaferri il 15/03/2021 in Moto & Scooter
100 anni di Moto Guzzi in 10 moto-icona
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Il 2021 segna il centenario della Moto Guzzi, una delle case motociclistiche più ricche di storia del panorama industriale italiano: ecco i modelli che ne hanno fatto la storia

La “Società Anonima Moto Guzzi” venne fondata il 15 marzo 1921 a Genova da Giorgio Parodi e da Carlo Guzzi, con stabilimento produttivo collocato a Mandello del Lario, sulle sponde del Lago di Como, dove, a 100 anni di distanza, la produzione va ancora avanti.
Già la prima moto prodotta “in serie”, la “Normale”, sfoggiava come logo un’aquila con le ali spiegate, in onore del Corpo Aeronautico di cui faceva parte Giovanni Ravelli, un amico dei soci che avrebbe dovuto prendere parte alla costituzione dell’azienda, purtroppo deceduto in un incidente aereo nel 1919.

La Moto Guzzi nacque con un DNA marcatamente orientato alle corse, e si è sempre distinta con un grande spirito di innovazione e di ricerca delle prestazioni, tanto che fu, tra l’altro, il primo costruttore mondiale a realizzare una galleria del vento nel 1950 nello stabilimento di Mandello, ed arrivò a progettare e realizzare motori con compressori volumetrici ed iniezione diretta già alla fine degli anni ‘30. In quell’epoca, infatti, la Guzzi mieteva successi a ripetizione, prova ne sono i 14 titoli mondiali velocità e gli 11 Tourist Trophy vinti (condotta  alla sua prima vittoria all’isola di Man da Omobono Tenni nel 1937), finchè non decise, per ragioni di natura finanziaria, di ritirarsi dalle competizioni nel 1957.

Ma l’eredità tecnica di questo periodo venne concretizzata nella produzione di serie, anche attraverso la realizzazione  del motore biclindrico a V di 90°, che sarà destinato a diventare il simbolo ed il marchio di fabbrica della Guzzi.

Ecco dunque una raccolta di 10 Moto Guzzi che hanno portato l’azienda fino ai giorni nostri.

<div class='descrGalleryTitle'>1. Normale (1921)</div><div class='descrGalleryText'><p>La <b>Normale</b> fu la prima moto prodotta in serie dalla Moto Guzzi, dal 1921 al 1924. Si caratterizzò per un motore monocilindrico a 4 tempi raffreddato ad aria da 498 cc con cilindro orizzontale (all’epoca una novità) ad alettature radiali. La distribuzione era a 2 valvole, ed il monocilindrico era capace di 8 CV a 3200 giri/min, abbastanza da spingere i 130 kg a secco della Normale fino a 80 km/h. </p>
<p>Sebbene questi numeri non sembrino certo da capogiro, occorre ricordare che le strade nel 1921 erano ben diverse da quelle odierne, tanto che la Normale si presentava <b>senza freno anteriore</b>, visto che un suo azionamento poteva risultare pericoloso per la scivolosità del fondo. La forza frenante venne dunque affidata al solo tamburo posteriore.</p>
<p>La ciclistica consisteva in un <b>telaio a doppia culla in tubi e lamiera</b>, con la sospensione anteriore a parallelogramma con 2 molle, mentre al retrotreno era presente una struttura rigida.</p>
<p>&nbsp;La Normale, in quanto derivazione del prototipo G.P. 500, anticipò gran parte degli elementi che caratterizzarono la produzione Guzzi almeno fino agli anni ’50. Per portarla alla conoscenza del pubblico, fu deciso di partecipare a gare di lunga percorrenza su strada, come la “Milano-Napoli”, dove nel 1921 la Normale dimostrò un’eccellente robustezza, arrivando con due moto su due al traguardo, e la “Targa Florio”, teatro, nello stesso anno, della prima vittoria della casa dell’Aquila.</p>
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1. Normale (1921)

La Normale fu la prima moto prodotta in serie dalla Moto Guzzi, dal 1921 al 1924. Si caratterizzò per un motore monocilindrico a 4 tempi raffreddato ad aria da 498 cc con cilindro orizzontale (all’epoca una novità) ad alettature radiali. La distribuzione era a 2 valvole, ed il monocilindrico era capace di 8 CV a 3200 giri/min, abbastanza da spingere i 130 kg a secco della Normale fino a 80 km/h.

Sebbene questi numeri non sembrino certo da capogiro, occorre ricordare che le strade nel 1921 erano ben diverse da quelle odierne, tanto che la Normale si presentava senza freno anteriore, visto che un suo azionamento poteva risultare pericoloso per la scivolosità del fondo. La forza frenante venne dunque affidata al solo tamburo posteriore.

La ciclistica consisteva in un telaio a doppia culla in tubi e lamiera, con la sospensione anteriore a parallelogramma con 2 molle, mentre al retrotreno era presente una struttura rigida.

 La Normale, in quanto derivazione del prototipo G.P. 500, anticipò gran parte degli elementi che caratterizzarono la produzione Guzzi almeno fino agli anni ’50. Per portarla alla conoscenza del pubblico, fu deciso di partecipare a gare di lunga percorrenza su strada, come la “Milano-Napoli”, dove nel 1921 la Normale dimostrò un’eccellente robustezza, arrivando con due moto su due al traguardo, e la “Targa Florio”, teatro, nello stesso anno, della prima vittoria della casa dell’Aquila.

<div class='descrGalleryTitle'>2. GT 500 "Norge" (1928)</div><div class='descrGalleryText'><p>La <b>GT 500</b> fu progettata da Giuseppe Guzzi, un ingegnere civile, fratello di Carlo, e fu la prima Moto Guzzi ad essere equipaggiata con un sistema di <b>sospensione al retrotreno</b> attraverso un forcellone oscilllante sul telaio a doppia culla; questa soluzione inizialmente non fu accolta con entusiasmo, in quanto era ritenuta poco sportiva. Tuttavia, questa moto è entrata nell’immaginario collettivo come simbolo di <b>robustezza ed affidabilità</b>. Fu infatti battezzata con il nome Norge in onore del dirigibile omonimo italiano, che, con Umberto Nobile, sorvolò i cieli del Polo Nord nel 1926. Il nome fu utilizzato a scopo promozionale, fatto che non aveva reso troppo felice la concorrenza.</p>
<p>Per dimostrare dunque l’affidabilità e la legittimità del suo utilizzo, Giuseppe Guzzi, durante l’estate del 1928 la condusse in un duro viaggio durato 28 giorni di <b>andata e ritorno da Mandello fino a Capo Nord</b>, coprendo oltre 6000 km su strade ben diverse da quelle odierne, riportando solo alcune forature alle gomme.</p>
<p>&nbsp;La risonanza mediatica che produsse l’impresa di Giuseppe è arrivata fino ai giorni nostri, tanto che, quando Moto Guzzi ha presentato la Norge 1200 nel 2006, un gruppo di giornalisti è partito da Mandello ripercorrendo le tappe di Naco (soprannome di Giuseppe) ed arrivando fino a Capo Nord.&nbsp;</p>
<p>II motore era sempre il monocilindrico orizzontale raffreddato ad aria da 498 cc, capace in questo caso di 13 CV a 3800 giri/min e dotato di un cambio a comando manuale a 3 marce, in grado di spingere i 200 kg a secco della Norge fino alla rispettabile velocità di 100 km/h. I freni erano entrambi a tamburo, e all’anteriore la sospensione era costituita da una forcella a parallelogramma a 3 molle.</p>
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2. GT 500 "Norge" (1928)

La GT 500 fu progettata da Giuseppe Guzzi, un ingegnere civile, fratello di Carlo, e fu la prima Moto Guzzi ad essere equipaggiata con un sistema di sospensione al retrotreno attraverso un forcellone oscilllante sul telaio a doppia culla; questa soluzione inizialmente non fu accolta con entusiasmo, in quanto era ritenuta poco sportiva. Tuttavia, questa moto è entrata nell’immaginario collettivo come simbolo di robustezza ed affidabilità. Fu infatti battezzata con il nome Norge in onore del dirigibile omonimo italiano, che, con Umberto Nobile, sorvolò i cieli del Polo Nord nel 1926. Il nome fu utilizzato a scopo promozionale, fatto che non aveva reso troppo felice la concorrenza.

Per dimostrare dunque l’affidabilità e la legittimità del suo utilizzo, Giuseppe Guzzi, durante l’estate del 1928 la condusse in un duro viaggio durato 28 giorni di andata e ritorno da Mandello fino a Capo Nord, coprendo oltre 6000 km su strade ben diverse da quelle odierne, riportando solo alcune forature alle gomme.

 La risonanza mediatica che produsse l’impresa di Giuseppe è arrivata fino ai giorni nostri, tanto che, quando Moto Guzzi ha presentato la Norge 1200 nel 2006, un gruppo di giornalisti è partito da Mandello ripercorrendo le tappe di Naco (soprannome di Giuseppe) ed arrivando fino a Capo Nord. 

II motore era sempre il monocilindrico orizzontale raffreddato ad aria da 498 cc, capace in questo caso di 13 CV a 3800 giri/min e dotato di un cambio a comando manuale a 3 marce, in grado di spingere i 200 kg a secco della Norge fino alla rispettabile velocità di 100 km/h. I freni erano entrambi a tamburo, e all’anteriore la sospensione era costituita da una forcella a parallelogramma a 3 molle.

<div class='descrGalleryTitle'>3. Falcone (1950)</div><div class='descrGalleryText'><p>La Moto Guzzi&nbsp;<b>Falcone </b>rappresenta il canto del cigno del motore monocilindrico orizzontale da 498 cc nato con la Normale, nonché la sua massima espressione tecnica, ed è stata prodotta in 7.610 esemplari.</p>
<p>Vide la luce nel dopoguerra, precisamente nel 1950, e mostrava già i segni di una modernità che piano piano, sottoforma di innovazioni tecnologiche, avanzava fra le case produttrici. Ad esempio, oltre al <b>cambio a 4 marce con comando a pedale</b>, montava una forcella telescopica all’anteriore, mentre la sospensione posteriore era sempre costituita dal forcellone<br>
oscillante con molla sotto il motore, introdotto dalla Norge. Il telaio era il doppia culla in tubi di acciaio e lamiera ormai caratteristico della produzione Guzzi. I freni, montati sulle ruote a raggi, erano entrambi a tamburo, necessari per frenare i 167 kg a secco della moto, che, spinta dai 23 CV a 4500 giri/min del monocilindrico, poteva raggiungere i 135 km/h.</p>
<p>La <b>Falcone</b> venne inizialmente proposta in un’unica versione, come un modello più sportivo dell’Astore. Dal 1953, fu declinata in<b> 2 versioni</b>, quella esistente, che fu chiamata Sport, e la Turismo, che andava a sostituirsi all’Astore.</p>
<p>La <b>Falcone</b> non subì un gran numero di aggiornamenti, ma gli <b>apprezzamenti</b> <b>del Corpo di Polizia e del Corpo Corazzieri</b>, i quali beneficiavano di versioni studiate ad hoc, contribuirono a mantenerla ancora a lungo in produzione, fino al 1967.</p>
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3. Falcone (1950)

La Moto Guzzi Falcone rappresenta il canto del cigno del motore monocilindrico orizzontale da 498 cc nato con la Normale, nonché la sua massima espressione tecnica, ed è stata prodotta in 7.610 esemplari.

Vide la luce nel dopoguerra, precisamente nel 1950, e mostrava già i segni di una modernità che piano piano, sottoforma di innovazioni tecnologiche, avanzava fra le case produttrici. Ad esempio, oltre al cambio a 4 marce con comando a pedale, montava una forcella telescopica all’anteriore, mentre la sospensione posteriore era sempre costituita dal forcellone
oscillante con molla sotto il motore, introdotto dalla Norge. Il telaio era il doppia culla in tubi di acciaio e lamiera ormai caratteristico della produzione Guzzi. I freni, montati sulle ruote a raggi, erano entrambi a tamburo, necessari per frenare i 167 kg a secco della moto, che, spinta dai 23 CV a 4500 giri/min del monocilindrico, poteva raggiungere i 135 km/h.

La Falcone venne inizialmente proposta in un’unica versione, come un modello più sportivo dell’Astore. Dal 1953, fu declinata in 2 versioni, quella esistente, che fu chiamata Sport, e la Turismo, che andava a sostituirsi all’Astore.

La Falcone non subì un gran numero di aggiornamenti, ma gli apprezzamenti del Corpo di Polizia e del Corpo Corazzieri, i quali beneficiavano di versioni studiate ad hoc, contribuirono a mantenerla ancora a lungo in produzione, fino al 1967.

<div class='descrGalleryTitle'>4. V7 Sport 750 (1971)</div><div class='descrGalleryText'><p>Per parlare in modo esauriente della <b>V7 Sport</b>, della sua nascita e dei suoi record occorrerebbero libri interi. La <b>V7 Sport è la Guzzi per antonomasia</b>, nonché l’antenata delle moto di Mandello moderne e quella che forse ha raccolto più di tutte il seguito degli appassionati, tanto che oggi è molto ambita dai collezionisti. Tutto ruota intorno al suo<b> motore trasversale a V di 90°</b>, che, paradossalmente, non era stato neanche concepito per scopi motociclistici, bensì per fini automobilistici e militari. Fu infatti progettato nel 1959 da Giulio Carcano (progettista di numerose Moto Guzzi da corsa, compresa la mitica 8 cilindri) nel neonato “reparto esperimenti” dell’azienda di Mandello, creato in sostituzione del reparto corse.</p>
<p>Nel 1967, dopo la morte di Carlo Guzzi, l’azienda venne acquisita dalla SEIMM, la quale, volendo <b>rilanciare l’immagine sportiva della Guzzi</b>, un po’ sbiadita a causa del ritiro dalle gare, affidò ai progettisti  Todero e Tonti, con quest’ultimo subentrato a Carcano, lo strategico compito di sviluppare il bicilindrico a V da 703 cc, che, nel frattempo, era stato equipaggiato per la prima volta su una moto, la V7. </p>
<p>La <b>V7 Sport </b>derivava dunque proprio dalla V7, ma le modifiche erano radicali: la cilindrata fu portata a 757 cc, i cavalli passarono da 40 a 5000 giri/min a 72 a 7000 giri/min, le marce da 4 diventarono 5, mentre il peso scese da 230 kg a 206 kg. Il risultato fu che la Sport raggiungeva i 206 km/h in velocità massima. </p>
<p>Inoltre, il<b> telaio a doppia culla in tubi fu ridisegnato</b> per conferire maggiore rigidezza ed una geometria con baricentro più basso, più adatto all’uso sportivo. Completarono il pacchetto un manubrio dalla piega più bassa e dei miglioramenti alle sospensioni ed ai freni, che purtroppo rimasero comunque a tamburo, rappresentando l’unico vero difetto della V7 Sport. Prova ne fu il fatto che la Guzzi stessa mise a disposizione un kit di conversione con freni a disco. </p>
<p>Della Sport fu inizialmente costruita una celebre pre-serie di soli 150 esemplari, chiamata <b>telaio rosso </b>per il caratteristico colore degli elementi del telaio, adottato in modo da farne risaltare il nuovo disegno. La produzione proseguì poi dal 1972 al 1974 con 3.541 esemplari prodotti del modello a telaio nero.</p>
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4. V7 Sport 750 (1971)

Per parlare in modo esauriente della V7 Sport, della sua nascita e dei suoi record occorrerebbero libri interi. La V7 Sport è la Guzzi per antonomasia, nonché l’antenata delle moto di Mandello moderne e quella che forse ha raccolto più di tutte il seguito degli appassionati, tanto che oggi è molto ambita dai collezionisti. Tutto ruota intorno al suo motore trasversale a V di 90°, che, paradossalmente, non era stato neanche concepito per scopi motociclistici, bensì per fini automobilistici e militari. Fu infatti progettato nel 1959 da Giulio Carcano (progettista di numerose Moto Guzzi da corsa, compresa la mitica 8 cilindri) nel neonato “reparto esperimenti” dell’azienda di Mandello, creato in sostituzione del reparto corse.

Nel 1967, dopo la morte di Carlo Guzzi, l’azienda venne acquisita dalla SEIMM, la quale, volendo rilanciare l’immagine sportiva della Guzzi, un po’ sbiadita a causa del ritiro dalle gare, affidò ai progettisti  Todero e Tonti, con quest’ultimo subentrato a Carcano, lo strategico compito di sviluppare il bicilindrico a V da 703 cc, che, nel frattempo, era stato equipaggiato per la prima volta su una moto, la V7.

La V7 Sport derivava dunque proprio dalla V7, ma le modifiche erano radicali: la cilindrata fu portata a 757 cc, i cavalli passarono da 40 a 5000 giri/min a 72 a 7000 giri/min, le marce da 4 diventarono 5, mentre il peso scese da 230 kg a 206 kg. Il risultato fu che la Sport raggiungeva i 206 km/h in velocità massima.

Inoltre, il telaio a doppia culla in tubi fu ridisegnato per conferire maggiore rigidezza ed una geometria con baricentro più basso, più adatto all’uso sportivo. Completarono il pacchetto un manubrio dalla piega più bassa e dei miglioramenti alle sospensioni ed ai freni, che purtroppo rimasero comunque a tamburo, rappresentando l’unico vero difetto della V7 Sport. Prova ne fu il fatto che la Guzzi stessa mise a disposizione un kit di conversione con freni a disco.

Della Sport fu inizialmente costruita una celebre pre-serie di soli 150 esemplari, chiamata telaio rosso per il caratteristico colore degli elementi del telaio, adottato in modo da farne risaltare il nuovo disegno. La produzione proseguì poi dal 1972 al 1974 con 3.541 esemplari prodotti del modello a telaio nero.

<div class='descrGalleryTitle'>5. V850 California (1972)</div><div class='descrGalleryText'><p style="text-align: left;">La <b>California </b>è un'altra pietra miliare della produzione della casa di Mandello, tanto che, ancora oggi, seppur profondamente aggiornata, è presente nel listino della Moto Guzzi.</p>
<p>Le sue origini, tuttavia, non sono da cercare sulle sponde del lago di Como, ma piuttosto su quelle dell<b>’Oceano Pacifico</b>.<br />
Infatti, nel 1968, i fratelli Berliner,<b> importatori americani</b> della Moto Guzzi, vinsero un appalto con la<b> polizia di Los Angeles</b>, impegnandosi a fornire inizialmente 10 modelli di V7 modificati nella cilindrata, portata a 757 cc, e dotati di accessori utili all’impiego poliziesco, come il parabrezza antiproiettile ed il cavalletto laterale azionabile da seduti. Questa versione modificata della V7, battezzata V7 Police, fu costruita a Mandello del Lario sotto la supervisione di un sergente dell’L.A.P.D.</p>
<p>Sull’onda del<b> successo arrivato oltreoceano</b>, spinto anche dalla nuova richiesta degli Highway Patrols Californiani, a Mandello si pensò di dar vita ad un’edizione a tema “americano” della V7, che nel frattempo era stata evoluta, nel 1969, in V7 Special: la <b>V7 750 California</b>, appunto.</p>
<p>La V7 California, rispetto alla V7 Special da cui derivava, si distingueva per la presenza di accessori e modifiche estetiche mutuate dalla Police, che ne enfatizzavano la sua <b>vocazione viaggiatrice e turistica</b>, come il manubrio largo e i poggiapiedi piatti in sostituzione delle normali pedane. Di questa versione ne furono costruiti pochi esemplari, perché dal 1972 la California crebbe di cilindrata, fino a 844 cc, diventando la<b> V850 California </b>e facendo proprie molte delle novità meccaniche introdotte sulla allora neonata V7 Sport,  come il cambio a 5 marce o il doppio freno a tamburo anteriore. L’affidabile biclindrico da 844 cc era in grado di erogare 64 CV a 6500 giri/min, numero che suggerisce quanto la California fosse piacevole da condurre su strada.</p>
<p>Da allora si sono succedute diverse versioni della <b>California</b>, che, pur differenziandosi dalle precedenti per gli sviluppi tecnologici e per evoluzioni stilistiche (come la California III del 1987, dallo stile “custom”), in fondo, è sempre rimasta fedele a sé stessa, costituendo di fatto la <b>Gran Turismo</b> per eccellenza.</p>
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5. V850 California (1972)

La California è un'altra pietra miliare della produzione della casa di Mandello, tanto che, ancora oggi, seppur profondamente aggiornata, è presente nel listino della Moto Guzzi.

Le sue origini, tuttavia, non sono da cercare sulle sponde del lago di Como, ma piuttosto su quelle dell’Oceano Pacifico.
Infatti, nel 1968, i fratelli Berliner, importatori americani della Moto Guzzi, vinsero un appalto con la polizia di Los Angeles, impegnandosi a fornire inizialmente 10 modelli di V7 modificati nella cilindrata, portata a 757 cc, e dotati di accessori utili all’impiego poliziesco, come il parabrezza antiproiettile ed il cavalletto laterale azionabile da seduti. Questa versione modificata della V7, battezzata V7 Police, fu costruita a Mandello del Lario sotto la supervisione di un sergente dell’L.A.P.D.

Sull’onda del successo arrivato oltreoceano, spinto anche dalla nuova richiesta degli Highway Patrols Californiani, a Mandello si pensò di dar vita ad un’edizione a tema “americano” della V7, che nel frattempo era stata evoluta, nel 1969, in V7 Special: la V7 750 California, appunto.

La V7 California, rispetto alla V7 Special da cui derivava, si distingueva per la presenza di accessori e modifiche estetiche mutuate dalla Police, che ne enfatizzavano la sua vocazione viaggiatrice e turistica, come il manubrio largo e i poggiapiedi piatti in sostituzione delle normali pedane. Di questa versione ne furono costruiti pochi esemplari, perché dal 1972 la California crebbe di cilindrata, fino a 844 cc, diventando la V850 California e facendo proprie molte delle novità meccaniche introdotte sulla allora neonata V7 Sport,  come il cambio a 5 marce o il doppio freno a tamburo anteriore. L’affidabile biclindrico da 844 cc era in grado di erogare 64 CV a 6500 giri/min, numero che suggerisce quanto la California fosse piacevole da condurre su strada.

Da allora si sono succedute diverse versioni della California, che, pur differenziandosi dalle precedenti per gli sviluppi tecnologici e per evoluzioni stilistiche (come la California III del 1987, dallo stile “custom”), in fondo, è sempre rimasta fedele a sé stessa, costituendo di fatto la Gran Turismo per eccellenza.

<div class='descrGalleryTitle'>6. V850 Le Mans (1975)</div><div class='descrGalleryText'><p>Le Mans. Un nome stampato sul fianchetto che evoca velocità e resistenza. <b>La Moto Guzzi V850 Le Mans è circondata da un alone di bellezza classico</b>, da un estetica minimalista ma al tempo stesso muscolosa e sportiva. Derivava infatti, fin dal prototipo del 1971, dalle Moto Guzzi impegnate nel Bol d’Or, che, in quegli anni, si correva proprio sullo storico circuito della Sarthe, e che vedeva&nbsp; impegnate delle V7 Sport con il motore maggiorato nella cilindrata.</p>
<p>La Le Mans è dunque figlia dello sviluppo della V7 Sport, un’eredità non certo facile da raccogliere, visto anche la <b>gestazione complicata</b> che ha dovuto subire prima di essere messa in produzione. Dopo la presentazione del prototipo, infatti, la proprietà della casa dell’Aquila, nel 1973, <b>passò da SEIMM a De Tomaso</b>, il quale, <b>non credendo nel potenziale della Le Mans</b>, era convinto che occorresse puntare su motori plurifrazionati, sull’onda di ciò che stavano facendo le case giapponesi.</p>
<p>Per fortuna, verso la fine del 1975, De Tomaso tornò sui suoi passi e diede un importante impulso alla sua produzione, tanto che venne presentata in <b>versione definitiva al Salone di Milano del 1975</b>. Il bicilindrico trasversale da 844 cc era in grado di erogare 80 CV a 7300 giri/min e di spingere i 198 kg a secco della V850 fino a 210 km/h. Il telaio era sempre il doppia culla in tubi sviluppato da Tonti per la V7 Sport, ma la vera novità riguardava l’impianto frenante, proposto con <b>3 dischi che lavoravano attraverso il sistema di frenata integrale</b>. Inoltre, come si può vedere dalle linee filanti e da una visione d’insieme particolarmente appagante, fu anche la <b>prima Moto Guzzi ad essere disegnata in un centro design</b>.</p>
<p>Proprio <b>l’estetica </b>è un elemento chiave del successo della Le Mans, perché con il suo design classico, donato dalle semicarene rosse che integrano il faro tondo e la strumentazione analogica meravigliosa nella sua semplicità, è riuscita a diventare un manifesto dello stile e della sportività italiana, diventando ancora oggi uno dei modelli più ricercati, soprattutto nella prima serie del modello, prodotta fino al 1978.<br>
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6. V850 Le Mans (1975)

Le Mans. Un nome stampato sul fianchetto che evoca velocità e resistenza. La Moto Guzzi V850 Le Mans è circondata da un alone di bellezza classico, da un estetica minimalista ma al tempo stesso muscolosa e sportiva. Derivava infatti, fin dal prototipo del 1971, dalle Moto Guzzi impegnate nel Bol d’Or, che, in quegli anni, si correva proprio sullo storico circuito della Sarthe, e che vedeva  impegnate delle V7 Sport con il motore maggiorato nella cilindrata.

La Le Mans è dunque figlia dello sviluppo della V7 Sport, un’eredità non certo facile da raccogliere, visto anche la gestazione complicata che ha dovuto subire prima di essere messa in produzione. Dopo la presentazione del prototipo, infatti, la proprietà della casa dell’Aquila, nel 1973, passò da SEIMM a De Tomaso, il quale, non credendo nel potenziale della Le Mans, era convinto che occorresse puntare su motori plurifrazionati, sull’onda di ciò che stavano facendo le case giapponesi.

Per fortuna, verso la fine del 1975, De Tomaso tornò sui suoi passi e diede un importante impulso alla sua produzione, tanto che venne presentata in versione definitiva al Salone di Milano del 1975. Il bicilindrico trasversale da 844 cc era in grado di erogare 80 CV a 7300 giri/min e di spingere i 198 kg a secco della V850 fino a 210 km/h. Il telaio era sempre il doppia culla in tubi sviluppato da Tonti per la V7 Sport, ma la vera novità riguardava l’impianto frenante, proposto con 3 dischi che lavoravano attraverso il sistema di frenata integrale. Inoltre, come si può vedere dalle linee filanti e da una visione d’insieme particolarmente appagante, fu anche la prima Moto Guzzi ad essere disegnata in un centro design.

Proprio l’estetica è un elemento chiave del successo della Le Mans, perché con il suo design classico, donato dalle semicarene rosse che integrano il faro tondo e la strumentazione analogica meravigliosa nella sua semplicità, è riuscita a diventare un manifesto dello stile e della sportività italiana, diventando ancora oggi uno dei modelli più ricercati, soprattutto nella prima serie del modello, prodotta fino al 1978.

<div class='descrGalleryTitle'>7. Daytona 1000 IE (1992)</div><div class='descrGalleryText'><p>La Daytona affonda le sue radici in contesto del tutto particolare, quello della fine degli anni ’80, dove le <b>corse con le</b> <b>moto derivate di serie iniziavano a suscitare un certo interesse</b>, con l’America nel ruolo di incubatrice di questa tendenza. Prima del mondiale Superbike, infatti, nacque anche la categoria della BoTT, la Battle of the Twins, riservata ai motori bicilindrici.<br>
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A Mandello tuttavia, <b>le cose non andavano per il meglio</b>, perché la casa dell’Aquila, proprio in quegli anni, stava attraversando un periodo complicato, a causa di una gestione De Tomaso non ottimale e di scelte aziendali che resero i modelli non all’altezza del palmarès del marchio.<br>
In questo contesto tempestoso, oltreoceano <b>un certo dentista americano appassionato di corse, il Dr. John Wittner</b>, iscrisse la sua special, derivata da una Guzzi Le Mans, alle gare BoTT del 1987, dove, con il pilota Doug Braunek, <b>riuscì ad imporsi proprio a Daytona</b>.<br>
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Questo successo generò una sequenza di eventi che nemmeno Dr. John avrebbe potuto prevedere, poiché, avendo suscitato proprio le attenzioni di De Tomaso, <b>fu chiamato a curare lo sviluppo del nuovo motore con distribuzione 4 valvole</b>. Inoltre, sfruttando la caratteristica unica del motore trasversale, Dr. John <b>riprogettò anche il telaio</b>, creando una <b>struttura monotrave</b> che dal canotto di sterzo si inseriva nello spazio creato dalla V del motore, andandosi ad imperniare sul forcellone con sistema cantilever, sospeso da un solo ammortizzatore.<br>
Con questo prototipo, che sarà il precursore della Daytona, nel 1989 il Dr. John arrivò anche in Europa, dove, a Monza,&nbsp; si trovò a battagliare quasi ad armi pari con la Ducati 851 ufficiale di Lucchinelli, e fu fermato solo da una rottura di un cavo di una candela. Ma ormai la Daytona aveva mostrato il suo potenziale.&nbsp;</p>
<p>Si decise dunque di produrre <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">una versione stradale della Daytona</b><span style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">, che fu presentata </span><b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">nel 1989</b><span style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;"> ed era una replica fedele di quella creata da Dr. John, con carenatura integrale bianca e rossa. Purtroppo, quando </span><b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">nel 1992 fu messa in vendita la versione definitiva</b><span style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">, si trattava di un progetto ormai obsoleto, di una moto nata già “vecchia” a causa del troppo tempo impiegato nel commercializzarla. Un vero peccato, se consideriamo il suo potenziale, estetico e meccanico. Diversamente dal prototipo, infatti, oltre all’iniezione elettronica, era presente una semicarena che lasciava in bella vista l’imponente motore 8 valvole da 992 cc, in grado di erogare 95 CV a 8400 giri/min. Il peso era di 205 kg a secco, ma la bicilindrica era in grado di raggiungere i 230 km/h.</span></p>
<p>Attraverso il suo stile classico, elegante, e muscoloso, attraverso il cupo borbottio del motore che rimbomba dai doppi scarichi posteriori, la Daytona, nonostante tutto, è riuscita a far <b>riassaporare alla Moto Guzzi il piacere della sportività</b>.<br>
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7. Daytona 1000 IE (1992)

La Daytona affonda le sue radici in contesto del tutto particolare, quello della fine degli anni ’80, dove le corse con le moto derivate di serie iniziavano a suscitare un certo interesse, con l’America nel ruolo di incubatrice di questa tendenza. Prima del mondiale Superbike, infatti, nacque anche la categoria della BoTT, la Battle of the Twins, riservata ai motori bicilindrici.

A Mandello tuttavia, le cose non andavano per il meglio, perché la casa dell’Aquila, proprio in quegli anni, stava attraversando un periodo complicato, a causa di una gestione De Tomaso non ottimale e di scelte aziendali che resero i modelli non all’altezza del palmarès del marchio.
In questo contesto tempestoso, oltreoceano un certo dentista americano appassionato di corse, il Dr. John Wittner, iscrisse la sua special, derivata da una Guzzi Le Mans, alle gare BoTT del 1987, dove, con il pilota Doug Braunek, riuscì ad imporsi proprio a Daytona.

Questo successo generò una sequenza di eventi che nemmeno Dr. John avrebbe potuto prevedere, poiché, avendo suscitato proprio le attenzioni di De Tomaso, fu chiamato a curare lo sviluppo del nuovo motore con distribuzione 4 valvole. Inoltre, sfruttando la caratteristica unica del motore trasversale, Dr. John riprogettò anche il telaio, creando una struttura monotrave che dal canotto di sterzo si inseriva nello spazio creato dalla V del motore, andandosi ad imperniare sul forcellone con sistema cantilever, sospeso da un solo ammortizzatore.
Con questo prototipo, che sarà il precursore della Daytona, nel 1989 il Dr. John arrivò anche in Europa, dove, a Monza,  si trovò a battagliare quasi ad armi pari con la Ducati 851 ufficiale di Lucchinelli, e fu fermato solo da una rottura di un cavo di una candela. Ma ormai la Daytona aveva mostrato il suo potenziale. 

Si decise dunque di produrre una versione stradale della Daytona, che fu presentata nel 1989 ed era una replica fedele di quella creata da Dr. John, con carenatura integrale bianca e rossa. Purtroppo, quando nel 1992 fu messa in vendita la versione definitiva, si trattava di un progetto ormai obsoleto, di una moto nata già “vecchia” a causa del troppo tempo impiegato nel commercializzarla. Un vero peccato, se consideriamo il suo potenziale, estetico e meccanico. Diversamente dal prototipo, infatti, oltre all’iniezione elettronica, era presente una semicarena che lasciava in bella vista l’imponente motore 8 valvole da 992 cc, in grado di erogare 95 CV a 8400 giri/min. Il peso era di 205 kg a secco, ma la bicilindrica era in grado di raggiungere i 230 km/h.

Attraverso il suo stile classico, elegante, e muscoloso, attraverso il cupo borbottio del motore che rimbomba dai doppi scarichi posteriori, la Daytona, nonostante tutto, è riuscita a far riassaporare alla Moto Guzzi il piacere della sportività.


<div class='descrGalleryTitle'>8. V10 Centauro (1996)</div><div class='descrGalleryText'><p>La Centauro è stata sicuramente <b>uno dei modelli più controversi e anticonformisti</b> di tutta la produzione Moto Guzzi, ed è <b>difficile relegarla in un solo segmento</b>, che comunque si trova a metà fra una dragster, una cruiser, ed una naked sportiva. Fu realizzata su base Daytona per celebrare <b>i 75 anni del marchio</b>, e, come la sua sorella (semi)carenata, era impegnativa da guidare.&nbsp; Proposta all’epoca ad un prezzo elevato, non è stata un grande successo commerciale, con meno di 2.000 unità vendute tra il 1996 e il 2001, anche a causa di difetti congeniti, come, ad esempio, una centralina non mappata adeguatamente.<br>
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Nonostante tutto, basta uno sguardo per capire <b>la quantità di personalità che possiede</b>: sia che la si ami o la si odi, non ammette vie di mezzo. Era una moto estrema, &nbsp;in grado di attirare gli sguardi e di emozionare come poche altre, grazie al suo look senza compromessi e al suo sound cupo e aggressivo.</p>
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Le sue forme andavano oltre gli studi di marketing, incontravano piuttosto la fantasia e l’estro dei suoi designer. Le linee, <b>morbide e tondeggianti</b>, si caratterizzavano con un posteriore quasi “seduto” sulla ruota. Completavano il retrotreno i due scarichi e l’unghia per coprire il sedile del passeggero. Scorrendo verso l’avantreno la moto si abbassava nella zona della larga sella del guidatore, per poi sollevarsi nuovamente sull’avantreno, dove le teste dei cilindri donavano aggressività, che, mescolata alla classicità del faro tondo e della doppia strumentazione analogica, creava uno stile strano quanto piacevole.<br>
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Il motore era il poderoso <b>bicilindrico 4 valvole trasversale da 992 cc</b>, che erogava 95 CV a 8200 giri/min e 98 Nm di coppia a 5800 giri/min. Il telaio, come il motore, era lo stesso della Daytona, e consisteva nel monotrave in tubi al Cromo-Molibdeno, con il motore stesso a fungere da elemento stressato. La ciclistica era completata da una forcella WP a steli rovesciati all’anteriore, mentre al posteriore era presente un forcellone in tubi, imperniato su un mono sempre &nbsp;WP. L’impianto frenante, composto da due dischi da 320 mm all’anteriore e pinze Brembo, aveva il compito di frenare i 224 Kg a secco della Centauro.<br>
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 Della Centauro ne vennero <b>prodotte 3 versioni</b>: oltre alla standard, nel 1998 vennero proposte la versione <b>GT</b>, dotata di accessori utili ad un utilizzo turistico, e la versione <b>Sport</b>, caratterizzata dalla verniciatura rossa con bande bianche trasversali, e da un cupolino più piccolo.<br>
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8. V10 Centauro (1996)

La Centauro è stata sicuramente uno dei modelli più controversi e anticonformisti di tutta la produzione Moto Guzzi, ed è difficile relegarla in un solo segmento, che comunque si trova a metà fra una dragster, una cruiser, ed una naked sportiva. Fu realizzata su base Daytona per celebrare i 75 anni del marchio, e, come la sua sorella (semi)carenata, era impegnativa da guidare.  Proposta all’epoca ad un prezzo elevato, non è stata un grande successo commerciale, con meno di 2.000 unità vendute tra il 1996 e il 2001, anche a causa di difetti congeniti, come, ad esempio, una centralina non mappata adeguatamente.

Nonostante tutto, basta uno sguardo per capire la quantità di personalità che possiede: sia che la si ami o la si odi, non ammette vie di mezzo. Era una moto estrema,  in grado di attirare gli sguardi e di emozionare come poche altre, grazie al suo look senza compromessi e al suo sound cupo e aggressivo.


Le sue forme andavano oltre gli studi di marketing, incontravano piuttosto la fantasia e l’estro dei suoi designer. Le linee, morbide e tondeggianti, si caratterizzavano con un posteriore quasi “seduto” sulla ruota. Completavano il retrotreno i due scarichi e l’unghia per coprire il sedile del passeggero. Scorrendo verso l’avantreno la moto si abbassava nella zona della larga sella del guidatore, per poi sollevarsi nuovamente sull’avantreno, dove le teste dei cilindri donavano aggressività, che, mescolata alla classicità del faro tondo e della doppia strumentazione analogica, creava uno stile strano quanto piacevole.

Il motore era il poderoso bicilindrico 4 valvole trasversale da 992 cc, che erogava 95 CV a 8200 giri/min e 98 Nm di coppia a 5800 giri/min. Il telaio, come il motore, era lo stesso della Daytona, e consisteva nel monotrave in tubi al Cromo-Molibdeno, con il motore stesso a fungere da elemento stressato. La ciclistica era completata da una forcella WP a steli rovesciati all’anteriore, mentre al posteriore era presente un forcellone in tubi, imperniato su un mono sempre  WP. L’impianto frenante, composto da due dischi da 320 mm all’anteriore e pinze Brembo, aveva il compito di frenare i 224 Kg a secco della Centauro.

Della Centauro ne vennero prodotte 3 versioni: oltre alla standard, nel 1998 vennero proposte la versione GT, dotata di accessori utili ad un utilizzo turistico, e la versione Sport, caratterizzata dalla verniciatura rossa con bande bianche trasversali, e da un cupolino più piccolo.

<div class='descrGalleryTitle'>9. V11 Le Mans (2001)</div><div class='descrGalleryText'><p>L’anno 2000 segna <b>l’inizio della gestione Aprilia</b>, con l’arrivo di Ivano Beggio sul ponte di comando, la cui politica fu quella di riportare l’azienda di Mandello ad un livello qualitativo più alto, da realizzarsi attraverso un miglioramento dei modelli in vendita.<br>
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<b>La V11 Le Mans</b>, nata sulla base della V11 Sport, <b>era l’incarnazione di questa filosofia</b>, ed era la dimostrazione che, attraverso lo sfoggio di particolari retrò uniti a componentistica moderna e di qualità, era possibile far combaciare con successo novità e tradizione. Nonostante alcuni elementi estetici abbiano diviso le opinioni degli appassionati (uno su tutti il grande cuplino stondato, che riprendeva le linee delle moto da corsa degli anni ‘50), anche la V11 sprizzava personalità da ogni bullone. È riuscita ad unire finiture ricercate, come il&nbsp; basamento del motore verniciato di nero antracite, ad una linea classica e quasi nostalgica, enfatizzata dal faro tondo anteriore e dalla strumentazione completamente analogica.<br>
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La V11 Le Mans più che implementare estreme innovazioni tecnologiche, <b>cercava di offrire il massimo piacere di guida</b>, anche attraverso la ricerca di sensazioni e pulsazioni tipiche delle moto di Mandello.<br>
Il motore è il <b>classico bicilindrico della serie V11</b>, migliorato in alcuni elementi: 1.064 cc di cilindrata con distribuzione ad aste e bilancieri, capace di&nbsp; 91 CV a 7800 giri/min e di 94 Nm di coppia a 5.400 giri/min.<br>
Sul piano ciclistico <b>il telaio monotrave in acciaio</b> che sfruttava lo spazio dentro la V dei cilindri si sdoppiava dietro il motore, andando a costituire i supporti delle pedane anodizzati. Completavano il pacchetto una forcella Marzocchi a steli rovesciati da 40 mm di diametro e un mono Sachs che lavorava sul forcellone dotato di sistema Cantilever.<br>
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I 226 Kg a secco della Le Mans non erano certo una massa trascurabile: La V11 infatti prediligeva una <b>guida rotonda e lineare</b>, accompagnata dal boato del bicilindrico che brontolava attraverso gli scarichi sdoppiati. Per fortuna, il suo peso poteva contare sul potere di arresto di <b>un ottimo impianto frenante</b>, costituito da due dischi Brembo serie oro da 320 mm all’anteriore, lavorati da due pinze a 4 pistoncini.</p>
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9. V11 Le Mans (2001)

L’anno 2000 segna l’inizio della gestione Aprilia, con l’arrivo di Ivano Beggio sul ponte di comando, la cui politica fu quella di riportare l’azienda di Mandello ad un livello qualitativo più alto, da realizzarsi attraverso un miglioramento dei modelli in vendita.

La V11 Le Mans, nata sulla base della V11 Sport, era l’incarnazione di questa filosofia, ed era la dimostrazione che, attraverso lo sfoggio di particolari retrò uniti a componentistica moderna e di qualità, era possibile far combaciare con successo novità e tradizione. Nonostante alcuni elementi estetici abbiano diviso le opinioni degli appassionati (uno su tutti il grande cuplino stondato, che riprendeva le linee delle moto da corsa degli anni ‘50), anche la V11 sprizzava personalità da ogni bullone. È riuscita ad unire finiture ricercate, come il  basamento del motore verniciato di nero antracite, ad una linea classica e quasi nostalgica, enfatizzata dal faro tondo anteriore e dalla strumentazione completamente analogica.

La V11 Le Mans più che implementare estreme innovazioni tecnologiche, cercava di offrire il massimo piacere di guida, anche attraverso la ricerca di sensazioni e pulsazioni tipiche delle moto di Mandello.
Il motore è il classico bicilindrico della serie V11, migliorato in alcuni elementi: 1.064 cc di cilindrata con distribuzione ad aste e bilancieri, capace di  91 CV a 7800 giri/min e di 94 Nm di coppia a 5.400 giri/min.
Sul piano ciclistico il telaio monotrave in acciaio che sfruttava lo spazio dentro la V dei cilindri si sdoppiava dietro il motore, andando a costituire i supporti delle pedane anodizzati. Completavano il pacchetto una forcella Marzocchi a steli rovesciati da 40 mm di diametro e un mono Sachs che lavorava sul forcellone dotato di sistema Cantilever.
 
I 226 Kg a secco della Le Mans non erano certo una massa trascurabile: La V11 infatti prediligeva una guida rotonda e lineare, accompagnata dal boato del bicilindrico che brontolava attraverso gli scarichi sdoppiati. Per fortuna, il suo peso poteva contare sul potere di arresto di un ottimo impianto frenante, costituito da due dischi Brembo serie oro da 320 mm all’anteriore, lavorati da due pinze a 4 pistoncini.

<div class='descrGalleryTitle'>10. V85 TT</div><div class='descrGalleryText'><p>Dopo l’acquisizione di Moto Guzzi ad opera del gruppo Piaggio alla fine del 2004, sotto la guida di Roberto Colaninno, <b>la gamma si è aggiornata e rinnovata</b>, fino ad arrivare ad <b>EICMA 2017</b>, quando è stata presentata la <b>V85 TT</b>, un’enduro stradale che ha riscosso un forte apprezzamento, sia da parte del pubblico che da parte della stampa specializzata.<br>
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Il motivo è semplice: è una <b>moto versatile, comoda, divertente</b> da guidare ed anche relativamente economica, ma che non per questo &nbsp;rinuncia a componenti di qualità ed alla tecnologia. Inoltre, è una moto di sostanza, dalla struttura semplice e senza fronzoli, disegnata a partire dall’immancabile bicilindrico trasversale, che ha dato <b>all’adventure di Mandello una linea facilmente riconoscibile e dinamica</b>. Non mancano alcune chicche, come le luci diurne sul faro anteriore che richiamano la sagoma di un’aquila.<br>
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La V85 TT si ispira <b>nei colori e nelle forme</b> alla <b>V65</b> <b>TT con cui Claudio Torri ha corso la Parigi-Dakar del 1985</b>, ma non si tratta di una moto da Enduro. Sebbene la Guzzi stessa la definisca una “Classic Enduro”, la V85 TT predilige l’asfalto, ma è perfettamente in grado di <b>adattarsi alle varie situazioni</b>, sia che esse prevedano viaggi in coppia, tragitti casa-lavoro o trasferimenti su strade sterrate.<br>
<b>Il motore</b>, come anticipato, è sempre il classico bicilindrico a V trasversale da 853 cc, ma i suoi “spigoli” sono stati smussati e adesso <b>abbraccia la modernità</b> con un’erogazione più lineare, pur conservando il suo carattere tanto amato dagli appassionati. Gli 80 CV a 7.750 giri/min di potenza e gli 80 Nm a 5.000 giri/min di coppia sono tenuti a bada anche dall’<b>elettronica</b>, che prevede tre mappature, il controllo della trazione, l’ABS, l’acceleratore RBW ed un display TFT.<br>
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La ciclistica, semplice quanto efficace, consiste in un <b>telaio tubolare in acciaio</b>, che lavora in sintonia con una forcella regolabile a steli rovesciati da 41 mm di diametro, e con un forcellone doppio braccio con monoammortizzatore, anch’esso regolabile, sul lato destro (sul lato sinistro trova posto lo scarico alto).<br>
<b>L’impianto frenante Brembo</b>, oltre che sull’ABS, può contare su due dischi da 320 mm morsi da pinze radiali a 4 pistoncini. Le ruote da 19” all’anteriore e da 17” al posteriore, sono a<b> raggi</b>, e prevedono la camera d’aria, nell'ottica di non far lievitare troppo il prezzo.</p>
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10. V85 TT

Dopo l’acquisizione di Moto Guzzi ad opera del gruppo Piaggio alla fine del 2004, sotto la guida di Roberto Colaninno, la gamma si è aggiornata e rinnovata, fino ad arrivare ad EICMA 2017, quando è stata presentata la V85 TT, un’enduro stradale che ha riscosso un forte apprezzamento, sia da parte del pubblico che da parte della stampa specializzata.

Il motivo è semplice: è una moto versatile, comoda, divertente da guidare ed anche relativamente economica, ma che non per questo  rinuncia a componenti di qualità ed alla tecnologia. Inoltre, è una moto di sostanza, dalla struttura semplice e senza fronzoli, disegnata a partire dall’immancabile bicilindrico trasversale, che ha dato all’adventure di Mandello una linea facilmente riconoscibile e dinamica. Non mancano alcune chicche, come le luci diurne sul faro anteriore che richiamano la sagoma di un’aquila.

La V85 TT si ispira nei colori e nelle forme alla V65 TT con cui Claudio Torri ha corso la Parigi-Dakar del 1985, ma non si tratta di una moto da Enduro. Sebbene la Guzzi stessa la definisca una “Classic Enduro”, la V85 TT predilige l’asfalto, ma è perfettamente in grado di adattarsi alle varie situazioni, sia che esse prevedano viaggi in coppia, tragitti casa-lavoro o trasferimenti su strade sterrate.
Il motore, come anticipato, è sempre il classico bicilindrico a V trasversale da 853 cc, ma i suoi “spigoli” sono stati smussati e adesso abbraccia la modernità con un’erogazione più lineare, pur conservando il suo carattere tanto amato dagli appassionati. Gli 80 CV a 7.750 giri/min di potenza e gli 80 Nm a 5.000 giri/min di coppia sono tenuti a bada anche dall’elettronica, che prevede tre mappature, il controllo della trazione, l’ABS, l’acceleratore RBW ed un display TFT.

La ciclistica, semplice quanto efficace, consiste in un telaio tubolare in acciaio, che lavora in sintonia con una forcella regolabile a steli rovesciati da 41 mm di diametro, e con un forcellone doppio braccio con monoammortizzatore, anch’esso regolabile, sul lato destro (sul lato sinistro trova posto lo scarico alto).
L’impianto frenante Brembo, oltre che sull’ABS, può contare su due dischi da 320 mm morsi da pinze radiali a 4 pistoncini. Le ruote da 19” all’anteriore e da 17” al posteriore, sono a raggi, e prevedono la camera d’aria, nell'ottica di non far lievitare troppo il prezzo.

Normale (1921)
Normale (1921)
GT 500 Norge (1928)
GT 500 Norge (1928)
Falcone (1950)
Falcone (1950)
V7 Sport 750 (1971)
V7 Sport 750 (1971)
V850 California (1972)
V850 California (1972)
V850 Le Mans (1975)
V850 Le Mans (1975)
Daytona 1000 IE (1992)
Daytona 1000 IE (1992)
V10 Centauro (1996)
V10 Centauro (1996)
V11 Le Mans (2001)
V11 Le Mans (2001)
V85 TT (2019)
V85 TT (2019)

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