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Le 10 Ducati più importanti di sempre

Fabio Tagliaferri il 13/11/2020 in Moto & Scooter
Le 10 Ducati più importanti di sempre
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Ecco quali sono i modelli con cui la Casa di Borgo Panigale ha inciso il suo nome nella storia del motociclismo

La casa di Borgo Panigale vanta una gloriosa storia decennale, con una fama costruita anche grazie al mondo delle competizioni, da cui Ducati ha da sempre travasato tecnologia e know-how per trasferirli nei modelli stradali. Un prestigio costruito anche a partire dai suoi motori desmodromici, vero e proprio marchio di fabbrica Ducati, implementati dall’ingegner Fabio Taglioni, in grado di regalare il tipico sound metallico e di avere un migliore rendimento nell’azionamento delle punterie, grazie all’assenza delle molle.


Invece, sul nuovo motore V4 Granturismo, che equipaggerà la nuova Multistrada V4, Ducati ha optato per la distribuzione tradizionale. Una scelta che da un lato renderà sicuramente scontenti molti appassionati del marchio, ma che dall’altro, assecondando una riflessione più profonda, non deve sorprendere più di tanto, in quanto è in linea con la filosofia di innovazione senza preconcetti che, soprattutto negli ultimi anni, è stata dominante nelle sue scelte aziendali. Inoltre questa configurazione ha anche vantaggi tecnici e pratici, visto il tipo di moto su cui è utilizzata.

Quale occasione migliore, dunque, per ripercorrere i 10 modelli stradali più significativi del marchio?

 

<div class='descrGalleryTitle'>DUCATI 125 SPORT (1957)</div><div class='descrGalleryText'><p>Presentata nel 1957, la<b> 125 Sport</b> può considerarsi la prima moto derivante direttamente dal mondo&nbsp;delle corse. Si basava infatti sulla Ducati Gran Sport, soprannominata&nbsp;Marianna (prima Ducati progettata da Taglioni), che contribuì a risollevare&nbsp;l’azienda negli anni ’50, e che partecipava a gare di gran fondo come il “Motogiro&nbsp;d’Italia” o la “Milano-Taranto”.</p>
<p>Tecnicamente la 125 Sport si presentava con un motore monocilindrico 4 tempi da&nbsp;124,4 cc raffreddato ad aria con distribuzione ad albero verticale e coppie&nbsp;coniche, capace di 10 CV a 8500 giri ed in grado di spingere i 100 Kg a secco&nbsp;della Sport fino a 112 km/h dichiarati. Il telaio era di tipo monoculla aperta,&nbsp;le ruote da 17’’ ed i freni a tamburo. Fu prodotta in circa 20.000 esemplari,&nbsp;fino al 1965.</p>
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DUCATI 125 SPORT (1957)

Presentata nel 1957, la 125 Sport può considerarsi la prima moto derivante direttamente dal mondo delle corse. Si basava infatti sulla Ducati Gran Sport, soprannominata Marianna (prima Ducati progettata da Taglioni), che contribuì a risollevare l’azienda negli anni ’50, e che partecipava a gare di gran fondo come il “Motogiro d’Italia” o la “Milano-Taranto”.

Tecnicamente la 125 Sport si presentava con un motore monocilindrico 4 tempi da 124,4 cc raffreddato ad aria con distribuzione ad albero verticale e coppie coniche, capace di 10 CV a 8500 giri ed in grado di spingere i 100 Kg a secco della Sport fino a 112 km/h dichiarati. Il telaio era di tipo monoculla aperta, le ruote da 17’’ ed i freni a tamburo. Fu prodotta in circa 20.000 esemplari, fino al 1965.

<div class='descrGalleryTitle'>SCRAMBLER 450 (1968)</div><div class='descrGalleryText'><p>Realizzato in circa 50.000 esemplari tra il 1968 e il 1975, lo <b>Scrambler </b>ha rappresentato una pietra miliare nella produzione Ducati, ed ha lasciato un’eredità culturale che l’azienda bolognese ha saputo sfruttare al meglio. </p>
<p>Nata principalmente per il mercato americano, lo <b>Scrambler </b>fu declinato in varie cilindrate, 250, 350, e 450, con quest’ultima che risultò la più apprezzata. La moto basò il suo successo sulla sua versatilità e semplicità di utilizzo, grazie alla tipica posizione di guida con manubrio largo e sella ampia, e poté contare su una linea tondeggiante ed elegante, illuminata dai colori vivaci e dalle cromature sul serbatoio, in una felice sinfonia cromatica e di proporzioni.</p>
<p>Il propulsore fu il monocilindrico da 436 cc raffreddato ad aria che erogava 27 CV a 6500 giri, e che spingeva i  145 kg a secco della Scrambler fino a 130 km/h. A richiesta, il motore era disponibile anche con distribuzione desmodromica.</p>
<p>Il telaio era un monoculla in tubi di acciaio, ed era sospeso attraverso dueammortizzatori ed una forcella teleidraulica. I freni, a tamburo, agiscono su ruote a raggi da 18’’ al posteriore e da 19’’ all’anteriore.</p>
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SCRAMBLER 450 (1968)

Realizzato in circa 50.000 esemplari tra il 1968 e il 1975, lo Scrambler ha rappresentato una pietra miliare nella produzione Ducati, ed ha lasciato un’eredità culturale che l’azienda bolognese ha saputo sfruttare al meglio. 

Nata principalmente per il mercato americano, lo Scrambler fu declinato in varie cilindrate, 250, 350, e 450, con quest’ultima che risultò la più apprezzata. La moto basò il suo successo sulla sua versatilità e semplicità di utilizzo, grazie alla tipica posizione di guida con manubrio largo e sella ampia, e poté contare su una linea tondeggiante ed elegante, illuminata dai colori vivaci e dalle cromature sul serbatoio, in una felice sinfonia cromatica e di proporzioni.

Il propulsore fu il monocilindrico da 436 cc raffreddato ad aria che erogava 27 CV a 6500 giri, e che spingeva i  145 kg a secco della Scrambler fino a 130 km/h. A richiesta, il motore era disponibile anche con distribuzione desmodromica.

Il telaio era un monoculla in tubi di acciaio, ed era sospeso attraverso dueammortizzatori ed una forcella teleidraulica. I freni, a tamburo, agiscono su ruote a raggi da 18’’ al posteriore e da 19’’ all’anteriore.

<div class='descrGalleryTitle'>DUCATI 750 GT (1972)</div><div class='descrGalleryText'><p>Negli anni ’70, anche grazie alla diffusione dell’automobile, la moto,&nbsp;da essere strumento di mobilità, trascese fino a diventare un mezzo ricreativo,&nbsp;simbolo di libertà e divertimento. Fu in questo clima che le cilindrate, insieme alle prestazioni, cominciarono a crescere, spinte anche dall’arrivo sul mercato&nbsp;europeo delle “maxi” giapponesi.</p>
<p>Ducati, nelle figure di Taglioni e di Milvio,&nbsp;interpretò questo cambiamento sfoderando quella che, a tutti gli effetti, è la&nbsp;progenitrice della storia moderna di Ducati, la <b>750 GT</b>. Fu con questa moto,&nbsp;infatti, che vide la luce il bicilindrico a L di 90° da 748 cc a coppie coniche&nbsp;e carter tondi, soprannominato “pompone”&nbsp;per il suo caratteristico e inconfondibile sound, che aveva anche effettivi&nbsp;vantaggi in termini di ingombri e di peso, tanto da portare al successo la&nbsp;Ducati alla 200 miglia di Imola del 1972, con Smart e Spaggiari.</p>
<p>Equipaggiato sulla <b>750 GT</b>, il bicilindrico raffreddato ad aria, che era parte&nbsp;integrante dell’estetica della moto, era capace di 60 CV a 8000 giri, abbastanza&nbsp;da spingere la GT fino a 200 km/h. &nbsp;Il&nbsp;telaio era a doppia culla in tubi, sospeso da una forcella teleidraulica e due&nbsp;ammortizzatori Marzocchi. All’anteriore era presente un freno a disco da 280 mm&nbsp;di diametro, mentre il posteriore era equipaggiato con un tamburo da 200 mm.&nbsp;L’ago della bilancia si fermava a 185 kg a secco.</p>
<p>A partire dal motore della GT a carter tondi, sarà poi creata una variante con distribuzione desmodromica, che&nbsp;equipaggerà la 750 SuperSport Desmo.&nbsp;</p>
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DUCATI 750 GT (1972)

Negli anni ’70, anche grazie alla diffusione dell’automobile, la moto, da essere strumento di mobilità, trascese fino a diventare un mezzo ricreativo, simbolo di libertà e divertimento. Fu in questo clima che le cilindrate, insieme alle prestazioni, cominciarono a crescere, spinte anche dall’arrivo sul mercato europeo delle “maxi” giapponesi.

Ducati, nelle figure di Taglioni e di Milvio, interpretò questo cambiamento sfoderando quella che, a tutti gli effetti, è la progenitrice della storia moderna di Ducati, la 750 GT. Fu con questa moto, infatti, che vide la luce il bicilindrico a L di 90° da 748 cc a coppie coniche e carter tondi, soprannominato “pompone” per il suo caratteristico e inconfondibile sound, che aveva anche effettivi vantaggi in termini di ingombri e di peso, tanto da portare al successo la Ducati alla 200 miglia di Imola del 1972, con Smart e Spaggiari.

Equipaggiato sulla 750 GT, il bicilindrico raffreddato ad aria, che era parte integrante dell’estetica della moto, era capace di 60 CV a 8000 giri, abbastanza da spingere la GT fino a 200 km/h.  Il telaio era a doppia culla in tubi, sospeso da una forcella teleidraulica e due ammortizzatori Marzocchi. All’anteriore era presente un freno a disco da 280 mm di diametro, mentre il posteriore era equipaggiato con un tamburo da 200 mm. L’ago della bilancia si fermava a 185 kg a secco.

A partire dal motore della GT a carter tondi, sarà poi creata una variante con distribuzione desmodromica, che equipaggerà la 750 SuperSport Desmo. 

<div class='descrGalleryTitle'>500SL PANTAH (1979)</div><div class='descrGalleryText'><p>Ducati, sul finire degli anni’70, stava probabilmente attraversando il periodo più buio della sua storia, che culminò con l’acquisizione dell’azienda da parte della Cagiva nel 1985 (come cambiano le cose…). La crisi aveva le sue radici nel fatto che da un lato le case giapponesi si stavano facendo largo nel mercato, dall’altro le bicilindriche parallele (soprannominate “Demonio”), che l’azienda di Borgo Panigale aveva lanciato nel 1975, si rivelarono tutt’altro che un successo.</p>
<p> In questo contesto teso ed oscuro, fondamentale fu una nuova intuizione di Taglioni, il quale, assistito dall’ufficio tecnico, diede vita ad un nuovo bicilindrico a “L” da 498,9 cc, con distribuzione desmodromica a 2 valvole per cilindro, comandata da cinghie dentate in gomma. Questa soluzione, se paragonata al comando a coppie coniche, consentiva una paragonabile precisione di funzionamento, ma con un’ importante abbattimento dei costi di produzione. </p>
<p>Per dare un degno supporto ciclistico al nuovo motore, venne sviluppato un telaio a traliccio, fatto di tubi di acciaio. Lo sviluppo della nuova supersportiva, la <b>Pantah</b>, fu molto lungo e pieno di insidie, tanto da richiedere anche una riprogettazione del basamento (ad opera di Mengoli). Alla fine, il bicilindrico svilupperà 48 CV, e sarà in grado di spingere i 180 kg a secco della Pantah fino a 200 km/h.  Al fascino della Pantah contribuì sicuramente anche un’estetica senza compromessi , con carenature taglienti ed affusolate.</p>
<p><br>
Verrà declinata nelle cilindrate di 350, 500, 600, 650 e rimarrà in produzione dal 1979 al 1984, con circa 8.000 esemplari costruiti. Ma soprattutto, più dei numeri, questa è la moto che ha in parte contribuito a salvare la storia motociclistica della Ducati.</p>
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500SL PANTAH (1979)

Ducati, sul finire degli anni’70, stava probabilmente attraversando il periodo più buio della sua storia, che culminò con l’acquisizione dell’azienda da parte della Cagiva nel 1985 (come cambiano le cose…). La crisi aveva le sue radici nel fatto che da un lato le case giapponesi si stavano facendo largo nel mercato, dall’altro le bicilindriche parallele (soprannominate “Demonio”), che l’azienda di Borgo Panigale aveva lanciato nel 1975, si rivelarono tutt’altro che un successo.

In questo contesto teso ed oscuro, fondamentale fu una nuova intuizione di Taglioni, il quale, assistito dall’ufficio tecnico, diede vita ad un nuovo bicilindrico a “L” da 498,9 cc, con distribuzione desmodromica a 2 valvole per cilindro, comandata da cinghie dentate in gomma. Questa soluzione, se paragonata al comando a coppie coniche, consentiva una paragonabile precisione di funzionamento, ma con un’ importante abbattimento dei costi di produzione.

Per dare un degno supporto ciclistico al nuovo motore, venne sviluppato un telaio a traliccio, fatto di tubi di acciaio. Lo sviluppo della nuova supersportiva, la Pantah, fu molto lungo e pieno di insidie, tanto da richiedere anche una riprogettazione del basamento (ad opera di Mengoli). Alla fine, il bicilindrico svilupperà 48 CV, e sarà in grado di spingere i 180 kg a secco della Pantah fino a 200 km/h. Al fascino della Pantah contribuì sicuramente anche un’estetica senza compromessi , con carenature taglienti ed affusolate.


Verrà declinata nelle cilindrate di 350, 500, 600, 650 e rimarrà in produzione dal 1979 al 1984, con circa 8.000 esemplari costruiti. Ma soprattutto, più dei numeri, questa è la moto che ha in parte contribuito a salvare la storia motociclistica della Ducati.

<div class='descrGalleryTitle'>851 S (1987)</div><div class='descrGalleryText'><p>La <b>Ducati 851 S</b> è la progenitrice delle moderne superbike bolognesi. Sarà lei, infatti, la prima Ducati iridata nel campionato mondiale Superbike del 1990, guidata dal francese Raymond Roche. Ma andiamo per gradi.</p>
<p>Siamo nel 1986, all’alba della gestione Castiglioni, la quale incaricò Bordi e Mengoli di realizzare un motore bicilindrico caratterizzato dall’iniezione elettronica, dal raffreddamento a liquido e dalla distribuzione desmodromica, ma con 4 valvole per cilindro, soluizione che a Taglioni non era mai piaciuta.</p>
<p>Da subito, il nuovo motore da 748 cc, si dimostrò più prestazionale, a parità di cilindrata, rispetto a quello a 2 valvole. Era dunque nato il Desmoquattro, che, nella seconda metà del 1987, fu portato alla cilindrata di 851 cc, numero che diede il nome alla neonata Superbike di Borgo Panigale. La 851 S veniva inizialmente proposta con livrea tricolore e ruote da 16’’, scelta che purtroppo non ne esaltava il comportamento su strada. Il Desmoquattro era capace di erogare 102 CV a 9000 giri, ed era abbracciato da un telaio a traliccio in acciaio, ormai diventato, insieme al bicilindrico ad L, simbolo della produzione Ducati. Il peso si aggirava sui 204 kg a secco.</p>
<p><br>
Nel 1989 la 851 subì un aggiornamento tecnico e stilistico, con la potenza aumentata a 105 CV e l’arrivo della tradizionale livrea rossa. Inoltre fecero la loro comparsa le ruote da 17’’, che finalmente rendevano giustizia alla ciclistica da regina delle SBK di cui era dotata la 851. I dischi anteriori furono portati alla moderna misura di 320 mm, mentre quello posteriore fu diminuito di diametro. Alla luce di questi dati, è chiaro vedere come la 851 sia stata davvero il punto di svolta della casa bolognese, la moto che ha lanciato Ducati verso l’era moderna e verso gloriosi anni di successi in SBK. La 851 è stata una moto senza compromessi, dura e pura, da guidare con passione e da possedere con consapevolezza di ciò che ha rappresentato.<br>
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851 S (1987)

La Ducati 851 S è la progenitrice delle moderne superbike bolognesi. Sarà lei, infatti, la prima Ducati iridata nel campionato mondiale Superbike del 1990, guidata dal francese Raymond Roche. Ma andiamo per gradi.

Siamo nel 1986, all’alba della gestione Castiglioni, la quale incaricò Bordi e Mengoli di realizzare un motore bicilindrico caratterizzato dall’iniezione elettronica, dal raffreddamento a liquido e dalla distribuzione desmodromica, ma con 4 valvole per cilindro, soluizione che a Taglioni non era mai piaciuta.

Da subito, il nuovo motore da 748 cc, si dimostrò più prestazionale, a parità di cilindrata, rispetto a quello a 2 valvole. Era dunque nato il Desmoquattro, che, nella seconda metà del 1987, fu portato alla cilindrata di 851 cc, numero che diede il nome alla neonata Superbike di Borgo Panigale. La 851 S veniva inizialmente proposta con livrea tricolore e ruote da 16’’, scelta che purtroppo non ne esaltava il comportamento su strada. Il Desmoquattro era capace di erogare 102 CV a 9000 giri, ed era abbracciato da un telaio a traliccio in acciaio, ormai diventato, insieme al bicilindrico ad L, simbolo della produzione Ducati. Il peso si aggirava sui 204 kg a secco.


Nel 1989 la 851 subì un aggiornamento tecnico e stilistico, con la potenza aumentata a 105 CV e l’arrivo della tradizionale livrea rossa. Inoltre fecero la loro comparsa le ruote da 17’’, che finalmente rendevano giustizia alla ciclistica da regina delle SBK di cui era dotata la 851. I dischi anteriori furono portati alla moderna misura di 320 mm, mentre quello posteriore fu diminuito di diametro. Alla luce di questi dati, è chiaro vedere come la 851 sia stata davvero il punto di svolta della casa bolognese, la moto che ha lanciato Ducati verso l’era moderna e verso gloriosi anni di successi in SBK. La 851 è stata una moto senza compromessi, dura e pura, da guidare con passione e da possedere con consapevolezza di ciò che ha rappresentato.
 

<div class='descrGalleryTitle'>MONSTER 900 (1993)</div><div class='descrGalleryText'><p>La <b>Monster </b>è la moto che ha abbandonato la mera dimensione di mezzo a due ruote per diventare un’icona da esporre nel santuario del motociclismo. La sua genialità risiede nel fatto di aver dato una funzione estetica ad elementi che fino ad allora erano considerati puramente funzionali, come il basamento del motore ed il telaio. Grazie a questo concetto, è nato un nuovo segmento motociclistico, quello delle naked sportive. </p>
<p><br>
Probabilmente, quando è stata presentata nel 1992, nessuno, neanche il suo geniale <b>designer Miguel Galluzzi</b>, si sarebbe mai aspettato che sarebbe diventata la Ducati più venduta di sempre, con più di 250 mila esemplari prodotti. Non solo, la Monster, attraverso la sua essenzialità, ha creato una cultura, uno stile di vita, un modo di esternare la propria personalità.</p>
<p><b>Essenzialità </b>è, appunto, il concetto chiave su cui si basa il progetto Monster, messo in piedi con pezzi presi spesso “in prestito” da altre Ducati o da rimanenze di magazzino. Il telaio è infatti il traliccio in acciaio della serie Superbike 851-888, il motore è il “pompone” raffreddato ad aria e olio da 904 cc della 900 SS, capace di 73 CV a 7250 giri.</p>
<p><br>
Alcuni elementi del Monster sono talmente permeati nell’immaginario collettivo, che viene ancora oggi utilizzata come termine di paragone per chiunque voglia affacciarsi nel mondo delle <b>naked</b>. Il faro tondo anteriore, il serbatoio a “dorso di dinosauro”, i doppi scarichi al posteriore, da cui esce il cupo brontolio del bicilindrico, sono infatti una vera e propria istituzione per ogni ducatista. </p>
<p>Tutto questo ha fatto sì che la Monster, progettata paradossalmente come moto essenziale, arrangiata ed accessibile, sia diventata un vulcano di personalità ed un incredibile successo commerciale. La <b>Monster </b>è la dimostrazione di come il genio, la fantasia e l’intuizione possono ancora recitare la loro parte.<br>
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MONSTER 900 (1993)

La Monster è la moto che ha abbandonato la mera dimensione di mezzo a due ruote per diventare un’icona da esporre nel santuario del motociclismo. La sua genialità risiede nel fatto di aver dato una funzione estetica ad elementi che fino ad allora erano considerati puramente funzionali, come il basamento del motore ed il telaio. Grazie a questo concetto, è nato un nuovo segmento motociclistico, quello delle naked sportive.


Probabilmente, quando è stata presentata nel 1992, nessuno, neanche il suo geniale designer Miguel Galluzzi, si sarebbe mai aspettato che sarebbe diventata la Ducati più venduta di sempre, con più di 250 mila esemplari prodotti. Non solo, la Monster, attraverso la sua essenzialità, ha creato una cultura, uno stile di vita, un modo di esternare la propria personalità.

Essenzialità è, appunto, il concetto chiave su cui si basa il progetto Monster, messo in piedi con pezzi presi spesso “in prestito” da altre Ducati o da rimanenze di magazzino. Il telaio è infatti il traliccio in acciaio della serie Superbike 851-888, il motore è il “pompone” raffreddato ad aria e olio da 904 cc della 900 SS, capace di 73 CV a 7250 giri.


Alcuni elementi del Monster sono talmente permeati nell’immaginario collettivo, che viene ancora oggi utilizzata come termine di paragone per chiunque voglia affacciarsi nel mondo delle naked. Il faro tondo anteriore, il serbatoio a “dorso di dinosauro”, i doppi scarichi al posteriore, da cui esce il cupo brontolio del bicilindrico, sono infatti una vera e propria istituzione per ogni ducatista.

Tutto questo ha fatto sì che la Monster, progettata paradossalmente come moto essenziale, arrangiata ed accessibile, sia diventata un vulcano di personalità ed un incredibile successo commerciale. La Monster è la dimostrazione di come il genio, la fantasia e l’intuizione possono ancora recitare la loro parte.
 

<div class='descrGalleryTitle'>DUCATI 916 (1994)</div><div class='descrGalleryText'><p>La <b>916 </b>non ha certo bisogno di presentazioni. Insieme forse alla sola Monster, è probabilmente la Ducati più iconica e rappresentativa dell’intera storia del marchio, nonché il manifesto del design italiano degli anni ’90. Disegnata dalla sapiente matita di Sergio Robbiano (padre anche della Cagiva Mito 125), è anche la Ducati più vincente nel mondiale SBK, condotta all’iride prima da Fogarty, poi da Corser e, infine, nelle sue discendenti, da Bayliss. </p>
<p>La <b>916 </b>venne sviluppata dal Centro Ricerche Cagiva, capitanato dal geniale Massimo Tamburini, inseguendo, sotto ogni aspetto, la massima cura e minuziosità nella progettazione di ogni componente, senza lasciare nulla al caso. Il risultato  d’insieme è la sintesi perfetta di ciò che è stato il CRC, ossia la fusione tra la migliore tecnologia italiana e lo stile aggressivo, passionale e senza tempo che la <b>916 </b>incarna alla perfezione nelle sue linee. </p>
<p>Il <b>motore </b>non è altro che l’evoluzione del Desmoquattro bicilindrico, bialbero, ad “L” della 888, portato a 916 cc attraverso un aumento dell’alesaggio, che, nella prima versione, eroga 114 CV a 9000 giri, e che trova la sua perfetta collocazione nel classico telaio a traliccio in tubi di acciaio. Una chicca è la possibilità di regolare l’inclinazione del canotto di sterzo tra 24° e 25°. Il comparto sospensioni è costituito da una forcella Showa a steli rovesciati da 43 mm di diametro all’anteriore e da un monoammortizzatore, sempre Showa, al posteriore. I 195 Kg a secco sono tenuti a bada da un impianto frenante composto da due dischi da 305 mm all’anteriore, lavorato da due pinze Brembo a 4 pistonicini e da un disco da 200 mm al posteriore.</p>
<p>Forcellone monobraccio, scarichi ellittici alti sotto il codone slanciato, cupolino dallo sguardo fiero caratterizzato dai doppi fari rettangolari. Ogni elemento della <b>916 </b>evoca un senso di nostalgia, eleganza e razionalità, ma fa anche trasparire l’incredibile lavoro che è stato fatto per giungere a tanta bellezza. <b>Eleganza </b>forse, ineguagliata ancora oggi.<br />
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DUCATI 916 (1994)

La 916 non ha certo bisogno di presentazioni. Insieme forse alla sola Monster, è probabilmente la Ducati più iconica e rappresentativa dell’intera storia del marchio, nonché il manifesto del design italiano degli anni ’90. Disegnata dalla sapiente matita di Sergio Robbiano (padre anche della Cagiva Mito 125), è anche la Ducati più vincente nel mondiale SBK, condotta all’iride prima da Fogarty, poi da Corser e, infine, nelle sue discendenti, da Bayliss.

La 916 venne sviluppata dal Centro Ricerche Cagiva, capitanato dal geniale Massimo Tamburini, inseguendo, sotto ogni aspetto, la massima cura e minuziosità nella progettazione di ogni componente, senza lasciare nulla al caso. Il risultato d’insieme è la sintesi perfetta di ciò che è stato il CRC, ossia la fusione tra la migliore tecnologia italiana e lo stile aggressivo, passionale e senza tempo che la 916 incarna alla perfezione nelle sue linee.

Il motore non è altro che l’evoluzione del Desmoquattro bicilindrico, bialbero, ad “L” della 888, portato a 916 cc attraverso un aumento dell’alesaggio, che, nella prima versione, eroga 114 CV a 9000 giri, e che trova la sua perfetta collocazione nel classico telaio a traliccio in tubi di acciaio. Una chicca è la possibilità di regolare l’inclinazione del canotto di sterzo tra 24° e 25°. Il comparto sospensioni è costituito da una forcella Showa a steli rovesciati da 43 mm di diametro all’anteriore e da un monoammortizzatore, sempre Showa, al posteriore. I 195 Kg a secco sono tenuti a bada da un impianto frenante composto da due dischi da 305 mm all’anteriore, lavorato da due pinze Brembo a 4 pistonicini e da un disco da 200 mm al posteriore.

Forcellone monobraccio, scarichi ellittici alti sotto il codone slanciato, cupolino dallo sguardo fiero caratterizzato dai doppi fari rettangolari. Ogni elemento della 916 evoca un senso di nostalgia, eleganza e razionalità, ma fa anche trasparire l’incredibile lavoro che è stato fatto per giungere a tanta bellezza. Eleganza forse, ineguagliata ancora oggi.
 

<div class='descrGalleryTitle'>DUCATI MULTISTRADA 1200 (2010)</div><div class='descrGalleryText'><p>Con la <b>Multistrada 1200</b> Ducati ci è riuscita di nuovo. È riuscita a reinventare ed a dare vita ad un fortunato segmento tutto nuovo, quello delle maxienduro sportive, le quali hanno sostituito spiritualmente le “vecchie-care” Sport-Tourer grazie a paragonabili doti dinamiche, utilizzabili però con maggiore versatilità.</p>
<p>Sebbene pensare ad una maxienduro sportiva possa sembrare una contraddizione, grazie ai progressi della tecnologia costruttiva e dell’elettronica Ducati è riuscita a sintetizzare 3 moto in una. La <b>Multistrada 1200 </b>è infatti in grado, grazie ad un pulsante che consente di scambiare fra quattro riding mode (Sport, Touring, Urban, Enduro), di cambiare la sua indole a seconda delle situazioni esterne e dello stile di guida del pilota, diventando, a seconda delle esigenze, una valida compagna di viaggio piuttosto che una divoratrice di tornanti, od ancora un’avventuriera in grado di affrontare, con ovvi limiti, anche le strade bianche poco impegnative. Chiaramente, per essere efficace ovunque, Ducati è dovuta scendere un po’ a compromessi con la Multistrada, ma è riuscita ad “allargare la coperta” abbastanza da renderla godibile e divertente in tutte queste situazioni.</p>
<p>Il motore è il bicilindrico desmodromico Testastretta della 1198 (al’epoca vincente in Superbike) ma con angolo di incrocio ridotto a 11° e capace di 150 CV a 9250 rpm, reso dunque più adeguato ad un utilizzo stradale. Questo valore, unito ad una ciclistica di ottimo livello ed al peso di soli 189 Kg, ottenuto grazie ad un moderno telaio a traliccio in tubi di acciaio, conferisce alla Multistrada delle prestazioni quasi da superbike, tenute a bada da un impianto frenante Brembo degno di una supersportiva.<br>
Intendiamoci, le maxienduro esistevano già (anche “in casa”, con la “vecchia” e discussa Multistrada 1100 della scuola stilistica di Terreblanche), ma il merito di Ducati è di averle rese ancora più <b>versatili </b>e di aver esteso ulteriormente il loro bacino di utenti.</p>
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DUCATI MULTISTRADA 1200 (2010)

Con la Multistrada 1200 Ducati ci è riuscita di nuovo. È riuscita a reinventare ed a dare vita ad un fortunato segmento tutto nuovo, quello delle maxienduro sportive, le quali hanno sostituito spiritualmente le “vecchie-care” Sport-Tourer grazie a paragonabili doti dinamiche, utilizzabili però con maggiore versatilità.

Sebbene pensare ad una maxienduro sportiva possa sembrare una contraddizione, grazie ai progressi della tecnologia costruttiva e dell’elettronica Ducati è riuscita a sintetizzare 3 moto in una. La Multistrada 1200 è infatti in grado, grazie ad un pulsante che consente di scambiare fra quattro riding mode (Sport, Touring, Urban, Enduro), di cambiare la sua indole a seconda delle situazioni esterne e dello stile di guida del pilota, diventando, a seconda delle esigenze, una valida compagna di viaggio piuttosto che una divoratrice di tornanti, od ancora un’avventuriera in grado di affrontare, con ovvi limiti, anche le strade bianche poco impegnative. Chiaramente, per essere efficace ovunque, Ducati è dovuta scendere un po’ a compromessi con la Multistrada, ma è riuscita ad “allargare la coperta” abbastanza da renderla godibile e divertente in tutte queste situazioni.

Il motore è il bicilindrico desmodromico Testastretta della 1198 (al’epoca vincente in Superbike) ma con angolo di incrocio ridotto a 11° e capace di 150 CV a 9250 rpm, reso dunque più adeguato ad un utilizzo stradale. Questo valore, unito ad una ciclistica di ottimo livello ed al peso di soli 189 Kg, ottenuto grazie ad un moderno telaio a traliccio in tubi di acciaio, conferisce alla Multistrada delle prestazioni quasi da superbike, tenute a bada da un impianto frenante Brembo degno di una supersportiva.
Intendiamoci, le maxienduro esistevano già (anche “in casa”, con la “vecchia” e discussa Multistrada 1100 della scuola stilistica di Terreblanche), ma il merito di Ducati è di averle rese ancora più versatili e di aver esteso ulteriormente il loro bacino di utenti.

<div class='descrGalleryTitle'>DUCATI 1199 PANIGALE (2012)</div><div class='descrGalleryText'><p>Con la <b>1199 Panigale</b>, Ducati ha commesso un “sacrilegio”, rimuovendo prima l’adorato telaio a traliccio in favore di una struttura monoscocca  che sfrutta il motore portante (in stile Desmosedici), e poi addirittura ruotando leggermente all’indietro il motore, rendendolo di fatto a “V” invece che ad “L”. Nella realtà dei fatti, però, la Panigale è stata accolta con grande entusiasmo ed ha riscosso parecchio successo, sia per il fascino che le sue forme emanano, sia perché queste “diavolerie” tecnologiche ed elettroniche ne migliorano notevolmente le prestazioni, iniziando, di fatto, una nuova era, quella della ricerca delle massime prestazioni e di numeri da capogiro, che sta continuando ancora oggi. </p>
<p>Ben venga l’innovazione, dunque, anche a costo, qualche volta, di sacrificare un po’ di tradizione.&nbsp;Come anticipato, infatti, il Testastretta viene sostituito dal <b>Superquadro </b>(dunque con alesaggio maggiore della corsa, ideale per girare a regimi di rotazione elevati), un bicilindrico desmodromico più compatto a V di 90° e capace di 195 CV a 10750 giri,  valori veramente impressionanti per un biclindrico “stradale”. </p>
<p>La funzione del telaio, invece, è svolta dal motore stesso, coadiuvato da una struttura monoscocca in alluminio imperniata sull’avantreno che funge anche da airbox. Il forcellone monobraccio è imbullonato direttamente sul carter. Queste complicate e laboriose soluzioni hanno contribuito a compattare ed alleggerire la moto, che adesso ferma l’ago della bilancia a soli 164 Kg a secco.  La Panigale è dotata di una dinamica di guida molto agile, e ciò è dovuto ad un complicato lavoro di distribuzione ed abbassamento dei pesi, come, ad esempio, il posizionamento dello scarico adesso sotto il motore. </p>
<p>La <b>1199</b>, dunque, ha fatto dell’innovazione la sua carta vincente, mostrando delle prestazioni che, tenute a bada da un’elettronica particolarmente evoluta, hanno segnato, ancora una volta, un nuovo punto di partenza.<br>
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DUCATI 1199 PANIGALE (2012)

Con la 1199 Panigale, Ducati ha commesso un “sacrilegio”, rimuovendo prima l’adorato telaio a traliccio in favore di una struttura monoscocca che sfrutta il motore portante (in stile Desmosedici), e poi addirittura ruotando leggermente all’indietro il motore, rendendolo di fatto a “V” invece che ad “L”. Nella realtà dei fatti, però, la Panigale è stata accolta con grande entusiasmo ed ha riscosso parecchio successo, sia per il fascino che le sue forme emanano, sia perché queste “diavolerie” tecnologiche ed elettroniche ne migliorano notevolmente le prestazioni, iniziando, di fatto, una nuova era, quella della ricerca delle massime prestazioni e di numeri da capogiro, che sta continuando ancora oggi.

Ben venga l’innovazione, dunque, anche a costo, qualche volta, di sacrificare un po’ di tradizione. Come anticipato, infatti, il Testastretta viene sostituito dal Superquadro (dunque con alesaggio maggiore della corsa, ideale per girare a regimi di rotazione elevati), un bicilindrico desmodromico più compatto a V di 90° e capace di 195 CV a 10750 giri, valori veramente impressionanti per un biclindrico “stradale”.

La funzione del telaio, invece, è svolta dal motore stesso, coadiuvato da una struttura monoscocca in alluminio imperniata sull’avantreno che funge anche da airbox. Il forcellone monobraccio è imbullonato direttamente sul carter. Queste complicate e laboriose soluzioni hanno contribuito a compattare ed alleggerire la moto, che adesso ferma l’ago della bilancia a soli 164 Kg a secco. La Panigale è dotata di una dinamica di guida molto agile, e ciò è dovuto ad un complicato lavoro di distribuzione ed abbassamento dei pesi, come, ad esempio, il posizionamento dello scarico adesso sotto il motore.

La 1199, dunque, ha fatto dell’innovazione la sua carta vincente, mostrando delle prestazioni che, tenute a bada da un’elettronica particolarmente evoluta, hanno segnato, ancora una volta, un nuovo punto di partenza.
 

<div class='descrGalleryTitle'>DUCATI PANIGALE V4 (2018)</div><div class='descrGalleryText'><p>Nel 2017 Ducati cattura nuovamente a sé le luci della ribalta, presentando la <b>Panigale V4</b>. Quel 4 nel nome significa che siamo di fronte per la prima volta ad un motore 4 cilindri uscito dalle linee di produzione di Borgo Panigale (escludendo ovviamente la Desmosedici  MotoGp, la sua replica stradale RR e l’Apollo). Stiamo assistendo ad una rivoluzione epocale, alla fine di un’era od all’inizio di una nuova, a seconda dei punti di vista. Ducati ha preferito mettere da parte la tradizione in favore dell’innovazione, in modo da competere ad armi pari (se non superiori) nel mondiale SBK con tutte le sue rivali giapponesi ed europee.</p>
<p>A Bologna, nella progettazione del motore, hanno attinto a piene mani dal know-how e dalla tecnologia sviluppata in MotoGp, creando un vero e proprio Desmosedici Stradale, prova ne è, ad esempio, l’adozione dell’albero motore controrotante. La cilindrata è stata portata a 1.103 cc, un valore che consente, oltre a potenze vertiginose, maggiore sfruttabilità e coppia anche ai medi regimi.  Il <b>V4 </b>è capace infatti di 214 CV a 13000 giri ed è caratterizzato da scoppi twin-pulse, in modo da replicare il comportamento di un bicilindrico e da creare carichi simili ad esso anche su forcellone e ruota posteriore.</p>
<p>La monoscocca della 1199 è stata sostituita da un telaio front-frame in alluminio dal peso di soli 4 Kg. Anche in questo caso il motore svolge funzione portante, fermando il peso totale della moto a 175 Kg a secco. Le sbalorditive prestazioni della <b>V4 </b>sono tenute a bada da un’elettronica che rappresenta lo stato dell’arte.</p>
<p>Questa iniezione di tecnologia e di cilindri non ha influito sulle linee della moto, che rimangono simili a quelle della 1199 Panigale, così come simile a lei rimangono anche lo scarico basso ed il codino puntato verso l’alto. Il design è però più tagliente ed affilato, quasi a sottolineare la nuova potenza che si cela dietro le sue carene così aggressive. La <b>V4 </b>emana cattiveria e potenza solamente a guardarla.<br>
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DUCATI PANIGALE V4 (2018)

Nel 2017 Ducati cattura nuovamente a sé le luci della ribalta, presentando la Panigale V4. Quel 4 nel nome significa che siamo di fronte per la prima volta ad un motore 4 cilindri uscito dalle linee di produzione di Borgo Panigale (escludendo ovviamente la Desmosedici MotoGp, la sua replica stradale RR e l’Apollo). Stiamo assistendo ad una rivoluzione epocale, alla fine di un’era od all’inizio di una nuova, a seconda dei punti di vista. Ducati ha preferito mettere da parte la tradizione in favore dell’innovazione, in modo da competere ad armi pari (se non superiori) nel mondiale SBK con tutte le sue rivali giapponesi ed europee.

A Bologna, nella progettazione del motore, hanno attinto a piene mani dal know-how e dalla tecnologia sviluppata in MotoGp, creando un vero e proprio Desmosedici Stradale, prova ne è, ad esempio, l’adozione dell’albero motore controrotante. La cilindrata è stata portata a 1.103 cc, un valore che consente, oltre a potenze vertiginose, maggiore sfruttabilità e coppia anche ai medi regimi. Il V4 è capace infatti di 214 CV a 13000 giri ed è caratterizzato da scoppi twin-pulse, in modo da replicare il comportamento di un bicilindrico e da creare carichi simili ad esso anche su forcellone e ruota posteriore.

La monoscocca della 1199 è stata sostituita da un telaio front-frame in alluminio dal peso di soli 4 Kg. Anche in questo caso il motore svolge funzione portante, fermando il peso totale della moto a 175 Kg a secco. Le sbalorditive prestazioni della V4 sono tenute a bada da un’elettronica che rappresenta lo stato dell’arte.

Questa iniezione di tecnologia e di cilindri non ha influito sulle linee della moto, che rimangono simili a quelle della 1199 Panigale, così come simile a lei rimangono anche lo scarico basso ed il codino puntato verso l’alto. Il design è però più tagliente ed affilato, quasi a sottolineare la nuova potenza che si cela dietro le sue carene così aggressive. La V4 emana cattiveria e potenza solamente a guardarla.
 

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