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Comparativa naked 900 cc

il 14/02/2002 in Moto & Scooter

Due, tre e quattro cilindri: abbiamo messo a confronto la Monster S4, la Hornet 900 e la Speed Triple 955i, mettendone in evidenza peculiarità e destinazione d’uso. Belle, veloci, divertenti, ma forse in qualche dettaglio ci si poteva aspettare di più

Comparativa naked 900 cc


di Alberto Dell'Orto
, foto Giuseppe Gori




Nelle pagine seguenti:
Dotazione e finiture: cura realizzativa direttamente proporzionale al prezzo di listino. Alcune raffinatezze, ma anche qualche caduta di tono
Tecnica: il motore: propulsori moderni ma non esasperati, che utilizzano le ultime tecnologie per coniugare prestazioni e guidabilità
Tecnica: la ciclistica: la Monster davvero sopra tutti per raffinatezza, seguita dalla Speed Triple.
La Hornet è più spartana per contenere i costi
Comfort e funzionalità: non sono nate per viaggiare, ma in sella ci si trova a proprio agio. La Monster eccelle nei comandi al manubrio, ma fa soffrire il passeggero
Su strada: leggere, potenti e ben frenate, sono delle vere fun-bike. Efficace la Ducati, sbarazzina la Honda, granitica la Triumph

Ducati Monster, Honda Hornet, Triumph Speed: non era difficile prevedere che anche nel settore delle moto svestite la corsa alle prestazioni e alla cilindrata non avrebbe tardato a farsi serrata. Anche se, va detto, tutto ciò va forse contro la logica che vuole questo tipo di cavalcatura come un mezzo da avvicinare senza timori reverenziali, per un utilizzo a tutto tondo che privilegi i brevi tragitti e le strade tortuose. Quindi, se le velocità medie di utilizzo sono, tutto sommato, relativamente ridotte, perché cercare potenze e punte velocistiche sempre più elevate? Tanto, senza un riparo aerodinamico, quanti davvero hanno voglia di arrivare a vedere “quanto fa”?




Ma queste sono elucubrazioni razionali, che probabilmente non colgono il vero nocciolo della questione: le motociclette, soprattutto alcune, parlano al cuore molto prima che alla testa, e nessun motociclista è, almeno in fondo all’animo, insensibile al richiamo della “belva”. Ecco allora spiegata la ragion d’essere delle nostre tre protagoniste, tutte dotate di propulsori di diretta derivazione sportiva con potenze ben oltre i 100 CV, tutte votate all’agilità e alla leggerezza, che si propongono, ognuna con la sua filosofia e il suo carattere, come l’arma totale per il divertimento.




COMPARATIVA
La Honda, per la verità, tiene a precisare che la Hornet è pensata per un utilizzo urbano, ma come illudersi che un motore ex-CBR 900, accoppiato a una ciclistica guizzante, possa non stuzzicare le peggiori fantasie motociclistiche? Noi, barbari, l’abbiamo buttata ugualmente nell’arena con la tricilindrica inglese e la bicilindrica italiana. Ecco cosa ne è venuto fuori.

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Viste da lontano sono, ognuna a proprio modo, tutte molto piacevoli, di una bellezza costituita dall’armonia delle parti meccaniche che le compongono. Le carrozzerie, giocoforza ridotte all’osso, rivestono un ruolo importante ma non esclusivo nella definizione dell’impatto estetico, in cui ovviamente tutta la meccanica acquista un’importanza semplicemente fondamentale e diventa quindi difficile scindere nettamente l’aspetto tecnico da quello visivo e funzionale.




In effetti le europee mostrano un livello di finiture e un gusto del dettaglio superiore alla Honda, e anche a livello di dotazione offrono, se non altro, un piccolo cupolino (accessorio a pagamento sulla Triumph), un guscio asportabile che le rende monoposto e superiori possibilità di personalizzare la risposta delle sospensioni. Non bisogna tuttavia dimenticare che, benché a nostro avviso nessuna possa definirsi a buon mercato, la Hornet ha l’indubbio vantaggio di costare sensibilmente meno delle concorrenti, che superano in entrambi i casi i 10.000 euro, e anche di parecchio.




Quindi ha senz’altro una sua logica la differenza di finiture riscontrabili nella gradevolezza visiva e tattile dei particolari in lega leggera (piastre, pedane, comandi) e le saldature del telaio. La Triumph, però, risente decisamente di una sorta di “asimmetria” del propulsore, molto pulito sul lato destro e assai più affollato di tubi e cavi su quello opposto. Decisamente ben fatte, in ogni caso, le verniciature tanto delle carrozzerie, quanto dei particolari meccanici come telai e motori.

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Tre motori, tre filosofie. Sono accomunati dalla distribuzione bialbero a quattro valvole, dal raffreddamento a liquido e dall’alimentazione a iniezione, eppure forse in nessun’altro aspetto delle tre moto si evidenzia altrettanto bene la differenza di carattere e filosofia che le caratterizza. La Ducati ha ereditato, pur riveduto e corretto, il motore della 916, il bicilindrico nato per le gare Superbike a metà degli anni Ottanta e impostosi sulle piste di tutto il mondo. Le sue caratteristiche perculiari sono la disposizione della V, con il cilindro anteriore quasi orizzontale per abbassare il baricentro, il comando a cinghia dentata degli alberi a camme. Ma il vero marchio di fabbrica è la distribuzione desmodromica, una raffinatezza meccanica che, richiamendo direttamente in chiusura le valvole, permette di fare a meno delle classiche molle elicoidali con significativi vantaggi sulla precisione di fasatura, sulla rapidità di apertura e chiusura delle valvole e sulla dissipazione di potenza per aprirle ai bassi regimi.




Ultima particolarità, i cuscinetti di banco, costituiti da speciali cuscinetti a rotolamento, invece delle ormai pressochè universali bronzine. Decisamente più classico il layout del motore Honda, un quattro in linea che unisce la semplicità delle scelte tecniche alla raffinatezza di materiali e lavorazioni. Il propulsore di 919 cc, utilizzato sulla CBR 900 RR fino al 1998, è stato ora dotato di iniezione elettronica, probabimente per rispettare più facilmente le normative antiinquinamento. Anche la messa a punto è stata rivista, con la diminuzione di diametro farfalle e rapporto di compressione, e l’impiego di alberi a camme meno spinti, per ottenere una migliore dolcezza di erogazione.




L’unità Triumph, nata per la Daytona, è attualmente l’unico tricilindrico in produzione di serie, e presenta diverse particolarità che si sposano in modo assai logico con le peculiarità del frazionamento. In particolare si nota un rapporto corsa-alesaggio non particolarmente spinto, indice di un motore studiato per dare il meglio di sé ai regimi cosiddetti medi, con una ampia banda di utilizzo, una buona progressione ai bassi e discrete capacità di allungo. La costruzione, comunque, segue i canoni classici del settore motociclistico, eccezion fatta per i cilindri, che hanno le canne sfilabili bagnate direttamente dal refrigerante.

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Anche a livello di telaio le differenze sono notevoli. La Monster, infatti, sfoggia uno dei capisaldi tecnici Ducati, il telaio a traliccio in tubi d’acciaio, che costituisce una delle soluzioni più raffinate (e costose) per coniugare leggerezza e rigidità. La bolognese, forse anche per farsi perdonare il prezzo più elevato, è quella che offre di più, almeno dal punto di vista formale, a livello di sospensioni, dove mette in evidenza una forcella regolabile a steli rovesciati, un monoammortizzatore completamente regolabile comandato da leveraggi che permettono di variare l’altezza del retrotreno e raffinati cerchi a cinque razze marchiati Marchesini. Completa i quadro l’impianto frenante anteriore Brembo serie Oro, probabilmente il massimo che la firma bergamasca offre per l’impiego su strada (anche se ci sarebbero piaciute le nuove pinze a quattro pastiglie…).




Decisamente più spartana la Honda, dotata di una forcella tradizionale con steli da 43 mm priva di qualsiasi regolazione, mentre il monoammortizzatore posteriore, regolabile nel precarico, è comandato direttamente dal forcellone senza alcun sistema di progressione. Il telaio, seguendo la linea tecnica inaugurata con la Hornet 600, è costituito da un trave sagomato che corre dal cannotto al fulcro del forcellone, mentre un'altra "costola" prosegue a supporto della sella e del parafango posteriore.




Anche in questo settore la Triumph si differenzia, proponendo uno schema inconsueto di tubi in lega leggera sovrapposti, che rielaborano il concetto di doppio trave caro al settore delle supersportive, ma integrandolo con la funzione strutturale del motore, elemento fortemente stessato. L’inglese, tra l’altro, si differenzia dalle altre anche per essere l’unica dotata di forcellone monobraccio e ruota a sbalzo.

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La premessa, ovviamente, è che nessuna delle tre nostre “candidate” sia stata disegnata e prodotta puntando tutta l’attenzione alle doti di comodità, se non altro perché, come impone l’essenza stessa del segmento, il riparo aerodinamico offerto è davvero limitato. E se tutto sommato la Triumph e la Ducati offrono un cupolino (non di serie sull’inglese) per ridurre almeno in parte lo sforzo, la Honda (per coerenza con la destinazione “cittadina”?) non prevede nemmeno questa possibilità, lasciando esplicitamente all'estro del cliente la possibilità di personalizzare la propia moto. La tre cilindri, comunque, offre almeno il riparo del serbatoio, decisamente alto rispetto al piano di seduta.




Le parti si invertono quando si prende in condiderazione la sella e la postura: la Hornet offre un’imbottitura maggiore, un’accoglienza adeguata anche al passeggero e una posizione di guida davvero naturale. Meno ospitale la Triumph, che offre strapuntini corsaioli a pilota e “secondo”, anche se sufficientemente imbottiti; il paseggero, però, per appigliarsi in modo davvero saldo, deve abbracciare il conducente. La Monster ha due facce: ospitale con il pilota sia per imbottitura della sella, sia per posizione di guida (leggermente caricata in avanti), richiede però una vera “prova d’amore” al passeggero, a cui è riservata una porzione di sella davvero ridotta, per di più poco imbottita e contenitiva. Ridotte in tutti i casi le vibrazioni, quasi nulle sulla Honda e un po’ più avvertibili sulla Ducati, con la Speed giusto nel mezzo.





La funzionalità generale è soddisfacente: le strumentazioni sono sufficientemente complete (tachimetro, contagiri, spie e segnalazione riserva), i comandi ben studiati (però Ducati è l’unica ad avere frizione idraulica e due leve regolabili, mentre il comando frizione Triumph è un po’ duro), i cavalletti laterali stabili e intuitivi. A livello di angolo di sterzata, solo Honda fa bene: Triumph e (soprattutto) Ducati costringono a numerose manovre in caso di inversione. I vani portaoggetti sono un po’ una sorpresa: il telaio Honda sacrifica molto dello spazio disponibile sotto la sella, sulla Monster, addirittura, non è possibile stivare altro che ciò che fornisce la Casa (attrezzi e documenti), mentre la Triumph, nel voluminoso codone, offre un vano relativamente ampio e molto sfruttabile. Per chiudere bene al primo colpo la sella o il guscio monoposto ci vuole però un po’ di “mestiere”.

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Motori, telai, freni, posizioni in sella: le premesse per divertirsi ci sono tutte. Anche con la Hornet, nonostante la destinazione d’uso “utilitaria”, almeno nelle intenzioni di mamma Honda. E in effetti le migliori soddisfazioni con la Hornet 900 si ricavano nello stretto, nelle successioni serrate di curve non troppo veloci, e anche (perché no?) nel traffico cittadino, dove la maneggevolezza da scooter e la sincerità di risposta permettono di gestire traiettorie e correzioni con la massima disinvoltura. Poi però c’è il motore: far finta di niente davanti a tanta meccanica (esemplare per prestazioni massime, regolarità e gentilezza di erogazione) non è da tutti, e quando scatta il prurito alla mano destra è dura trattenersi, anche perché la giapponese è prestante ma non mette in soggezione con reazioni brusche.




E quando si comincia ad andare forte, ma forte davvero (il motore non si tira indietro!), la ciclistica fatica a stargli a bada: la ridotta avancorsa e le sopensioni morbide sono poco adeguate a ritmi davvero veloci, e anche i curvoni presi in pieno portano a ondeggiamenti, mentre in staccata e in ingresso di curva la forcella molto morbida e poco frenata affonda vistosamente arrivando in alcuni casi addirittura a fondocorsa. La Ducati invece è, al pari della Triumph, decisamente stabile alle alte velocità, anche se perde un po’ di feeling nello stretto a causa di una certa tendenza a “cadere” all’interno della curva, che bisogna contrastare dosando opportunamente il gas. La sensazione è che i Michelin di serie siano i primi responsabili di questo comportamento. Decisamente a punto di sospensioni (è la migliore del lotto), la bolognese sul misto è comunque in grado, complice il motore davvero generoso (un po’ irregolare ai bassi, ma corposo ai medi e instancabile in allungo), di far vedere la targa anche a ipercarenate da pista.




La frenata, grazie anche all’assetto rigoroso, è un riferimento. La Triumph è un mondo a sé: è sgarbata, rabbiosa, a tratti insolente, ma comunque efficacissima e precisa anche quando si tira sul serio. Il motore, una goduria per chi ama sensazioni forti, permette, in qualsiasi marcia e da qualsiasi regime, di ottenere una risposta pronta e vigorosa all’apertura del gas. Anche i freni sono molto efficaci, e l’anteriore unisce potenza e ottima gestibilità. Le sospensioni sono piuttosto rigide, ma la forcella appare debole di molla e “legata” di idraulica: nelle successioni serrate di curve toglie un po’ di feedback al pilota. Per fortuna che le ottime Bridgestone BT 010 sono una garanzia.

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