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Moto & Scooter
L’altra “8 valvole” della Harley Davidson
il 18/11/2001 in Moto & Scooter
Il nuovo motore V-Rod non è l’unico 8 valvole della storia della Casa di Milwaukee. Una Racer degli Anni ’20 recava già questa soluzione, e vinceva ovunque
di Alan Cathcart e Luigi Rivola
Pochi mesi fa la Harley Davidson ha annunciato la rivoluzione V-Rod: un nuovo motore di 1000 cc bicilindrico da 115 CV raffreddato a liquido con distribuzione bialbero a quattro valvole per cilindro, insomma, dopo decenni di custom e di cruiser spinte da un pacifico due valvole ad aste e bilancieri, una “bomba” supersportiva da panico!
Rivoluzionario davvero? Per la Harley del secondo dopoguerra certamente sì, ma non per quella dei primordi.
Già nel 1916 infatti nel catalogo ufficiale della Casa di Milwaukee si poteva trovare una sportivissima 1000 bicilindrica con motore a quattro valvole per cilindro; costava 1500 dollari – una vera fortuna per l’epoca – ma aveva un’attrattiva particolare: era una delle moto più moderne, belle e veloci del mondo e vinceva le corse. La V-Rod sarà quindi rivoluzionaria, ma nel passato della Harley Davidson c’è chi l’ha preceduta, e che probabilmente, dal silenzio di un museo, sta a guardare con calma ciò che la nuova arrivata, così ricca di pretese, si appresta a fare.
Alan Cathcart, tra una Honda GP, una Ducati SBK e una marea di moto stradali di ogni genere e di ogni nazionalità, un giorno è riuscito a salire in sella – naturalmente in pista – anche ad una di queste antiche glorie americane. L’ha scovata in Italia, dove le Indian e le Harley Davidson da corsa negli Anni ’20 furoreggiavano, e dove Benito Battilani, uno dei personaggi di spicco del collezionismo motociclistico nazionale, ne ha restaurata una a completamento della sua formidabile raccolta di moto americane del passato.
Fra tutte le motociclette costruite fino ad oggi, le bicilindriche sportive americane degli Anni ’10 e ’20 sono senz’altro le più provocanti. Asciutte ma sostanziose, agili, ma muscolose, andavano ben oltre gli standard dell’epoca e il loro look era talmente aggressivo che anche da ferme facevano supporre le prestazioni incredibili di cui erano realmente capaci.
Si può dire, senza tema di smentita, che queste American Racer furono pioniere di un’intera generazione di superbikes che non ebbe eguali, per concezione e per sofisticazione tecnica, fino alla fine degli Anni ’60.
La Harley Davidson, fondata nel 1903, si avvicinò ufficialmente alle competizioni di velocità solo nel 1914 con la costituzione del suo primo team, dotato di versioni elaborate delle bicilindriche a valvole contrapposte, moto decisamente superate dai più evoluti modelli della concorrenza, in particolare quelli messi in campo dalla Indian e dalla Excelsior.
Fu subito chiaro a Milwaukee che con le valvole contrapposte i successi non sarebbero arrivati. Questa considerazione portò ad un drastico balzo in avanti, una volta deciso di continuare sulla strada agonistica intrapresa. Bill Ottaway, responsabile del reparto corse Harley Davidson, fu così incaricato di studiare e realizzare un bicilindrico a 8 valvole in testa concettualmente simile a quello che stava mietendo trionfi per il marchio Indian.
Costruito a tempo di record, in fase di messa a punto però procurò solo delusioni, finché Bill Harley pensò di rivolgersi al tecnico inglese Harry Ricardo che, dopo aver passato alcune settimane a Milwaukee, firmò la versione definitiva della 8 valvole.
Nel 1915 la nuova moto debuttò clamorosamente nelle competizioni guadagnandosi subito una fama che in breve tempo attraversò l’Atlantico, rilanciata dalle vittorie, conquistate con impressionante regolarità da grandi piloti europei come Freddie Dixon, Claude Temple, Doug Davidson e Amedeo Ruggeri.
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Il motore a 8 valvole è il classico bicilindrico Harley Davidson a V longitudinale di 45° con cilindrata di 61 pollici cubi (986 cc circa) data da un alesaggio di 84 mm e una corsa di 89 mm. Il sistema di distribuzione è comandato da una coppia di lunghe aste parallele che salgono dal carter alla sommità della testa correndo a fianco di ciascun cilindro. Le valvole, due di scarico e due di aspirazione, a coppie parallele con angolo incluso di 90°, sono richiamate in sede da molle cilindriche; curiosamente i condotti di scarico hanno sezione ovale e ogni cilindro è munito di due tubi di scarico indipendenti, con l’ulteriore stranezza che quelli posteriori risultano molto più corti di quelli anteriori.
Un solo carburatore Schelber da corsa, posto all’interno del V fra i cilindri, serve tutti e quattro i condotti di aspirazione ricevendo la benzina, per caduta, dalla metà destra del serbatoio. La metà opposta funge da serbatoio dell’olio, che scende verso il motore anch’esso per gravità, ma con l’ausilio di una pompa a mano, posta sullo stesso lato del serbatoio.
Il cambio con albero primario e contralbero è a tre coppie di rapporti, e la trasmissione è interamente a catena, altro segno distintivo di questa moto rispetto alla tendenza tecnica del tempo.
La ciclistica non presenta le stesse caratteristiche innovative del propulsore, tuttavia si fa notare per originalità ed efficienza la forcella a quattro sottili tubi verticali, brevetto Harley Davidson.
Pressoché inesistenti invece i freni, certamente inadatti anche solo a rallentare una moto che negli Anni ’20 aveva la stessa accelerazione di una BSA Gold Star 500 di 35 anni dopo, e che toccava una velocità massima superiore a 160 km/h.
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Non esagero dicendo che quando sono salito in sella a questa moto ero un po’ emozionato. Abituato alle moderne moto dalla ciclistica superba e dai freni potentissimi, non sapevo bene che cosa aspettarmi da questo mostro degli Anni ’20, praticamente senza freni e dotato di comandi, come la leva della regolazione dell’anticipo, sul lato sinistro del manubrio, in disuso ormai da tempo.
So che Amedeo Ruggeri, il grande campione italiano della Harley, aveva modificato la sua moto eliminando quella “grande invenzione” americana che è la frizione a pedale, ma Battilani, col rigore del vero collezionista, nella sua ha voluto che fosse mantenuta originale.
Anche Battilani però ha fatto una concessione alla modernità (e al buon senso): inizialmente infatti questa motocicletta aveva il comando dell’acceleratore a sinistra e quello dell’anticipo a destra del manubrio, ma io fortunatamente me li sono trovati dove li ho sempre trovati da quando ho guidato per la prima volta una moto.
Per partire si disinnesta la frizione col piede sinistro e si sceglie la marcia “low” spostando a mano la leva posta sulla sinistra del serbatoio, poi si apre progressivamente l’acceleratore diminuendo la pressione del piede sul pedale della frizione. Volendo accelerare con maggior decisione bisogna anche aumentare in progressione l’anticipo dell’accensione tramite la leva sul manubrio. Per cambiare marcia si disinnesta ancora la frizione, si porta la leva in posizione di seconda velocità e si rilascia la frizione, col risultato che la moto compie un pauroso balzo in avanti, mentre ancora sono aggrappato al manubrio con una sola mano. La procedura si ripete, con identico risultato, per inserire la marcia più lunga.
Fortunatamente, durante la dozzina di giri effettuati sulla pista di Misano, la prima volta che ho usato il cambio è stata anche l’ultima: con la terza inserita, giocando sul ritardo dell’accensione, tanto che il motore sembrava produrre uno scoppio ogni due secondi, potevo affrontare anche le curve più strette, riaprendo l’acceleratore ed aumentando l’anticipo in uscita col motore che obbediva senza protestare e mostrando una sorprendente capacità di recupero.
In breve ho imparato il trucco per andare forte con questo vecchio bolide: tutto sta nel coordinare perfettamente l’azione sull’acceleratore e sulla manetta dell’anticipo, con una ginnastica manuale strana e buffa al giorno d’oggi, che però produce, grazie alla comunque rilevante potenza della Harley Davidson 1000 8 valvole e al grip offerto dal moderno asfalto, all’epoca del tutto sconosciuto, eccellenti risultati e sensazioni forti. Sfruttando bene il motore svanisce anche l’ossessione della mancanza dei freni e si impara a far danzare la moto fra una curva e l’altra, arrivando senza sforzo a far sfregare a terra le larghe pedane.
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L’altra “8 valvole” della Harley Davidson
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