Attualità
Locatelli (Airoh): presto fare caschi in Italia diventerà impossibile
Anche i caschi, elemento centrale del patrimonio industriale motociclistico italiano, sono sotto minaccia. Martina Locatelli, responsabile di produzione Airoh, ci spiega perché e cosa potrebbe succedere
Come Sergio Marchionne, prima del master in economia ha preso una laurea in filosofia. Martina Locatelli è la figlia di Antonio, fondatore di Airoh (acronimo di “Antonio’s Innovative Range Of Helmets) e attualmente COO dell’azienda bergamasca. COO sta per Chief Operating Officer, responsabile operativo: un uomo di fabbrica – in questo caso una donna di fabbrica, con cui approfittiamo della presentazione del casco dedicato alla Sei Giorni di Enduro per chiacchierare un po’ di prospettive industriali.
L’Italia è sempre stata protagonista nel mondo dei caschi, in particolare a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, quando oltre all’industria motociclistica abbiamo assistito alla fioritura di molte filiere collegate: dall'abbigliamento ai servizi di ingegneria e dagli accessori ad, appunto, i caschi. Dopo aver realizzato per anni caschi conto terzi, Antonio Locatelli nel 1997 ha fondato ad Almenno San Bartolomeo Airoh, specializzandosi da subito nel settore off-road, dove grazie anche ad un’aggressiva politica di sponsorizzazione dei migliori piloti del mondo, Airoh è rapidamente diventata leader.
Negli ultimi anni Airoh si è strutturata per restare al passo con i tempi: una gamma sempre più completa, nuovi macchinari e addirittura una galleria del vento interna, per fare il salto di qualità in termini di ventilazione, silenziosità ed efficienza aerodinamica. Oggi, come tutti, anche Airoh si trova a dover fare i conti con la concorrenza dei prodotti del sud-est asiatico, sempre più evoluti ma comunque molto meno costosi dei nostri.
Martina, si può ancora produrre in Italia?
"Mantenere la produzione in Italia è una grandissima sfida, per due grandi motivazioni. La prima è sicuramente quella della fascia di prezzo: la maggior parte dei nostri concorrenti è già andata a produrre in Asia. Questo vuol dire prezzi minori e grandi quantità, ovvero poter fare economie di scala che in Italia non si possono avere. Ma un’altra difficoltà che si sta verificando negli ultimi tempi è che spostandosi tutti nel nell'est del mondo e delocalizzando, è andata in crisi anche la filiera e alcune importanti forniture stanno venendo meno. Soprattutto qui dalle parti di Bergamo la filiera era molto florida quando mio padre ha iniziato l’attività, mentre ora non c'è abbastanza volume per mantenerla e mi aspetto che nei prossimi cinque anni i nostri fornitori italiani diverranno sempre di meno, costringendoci a spostare anche noi sempre più lavorazioni in Asia."
Colpa delle normative?
"Non solo, le normative diventano sempre più stringenti anche in termini di sostenibilità come è giusto che sia, ma anche alcune lavorazioni sono diventate sempre più sofisticate e specifiche. Penso ad esempio alla verniciatura: le tecniche di verniciatura si evolvono, ed è sempre più difficile rimanere in una certa fascia di prezzo ed essere comunque a norma con tutte le regolamentazioni, sempre più stringenti. Ripeto: è giusto così, ma il nostro comparto soffre particolarmente, perché il casco è in primis un prodotto di sicurezza e i primi standard che deve rispettare sono quelli di sicurezza: anche solo andando a cambiare una lavorazione, una mescola, una verniciatura può cambiare totalmente il comportamento della parte esterna del casco, pensiamo solo all’attrito quando striscia a terra. Per cui l’insieme di questi fattori ti porta a spostarti e a guardare altrove. Sono le leggi di mercato."
Certo fa impressione vedere che la desertificazione industriale dell’Italia non si arresta.
"Sì, in un futuro non tanto prossimo la filiera in Italia sarà destinata a interrompersi in qualche elaborazione, quindi noi inevitabilmente per tutelarci dobbiamo guardare anche all’estero."
Non c’è speranza di recuperare volumi?
"Si cerca di comunque collaborare con i fornitori storici, che sanno di poter contare su un certo volume di lavoro. Si cerca di fare delle strategie e delle sinergie per mantenere questa artigianalità, perché comunque tutti i nostri caschi sono prodotti a mano e non c'è alcun problema tecnologico, è solo un fatto di costi. Il vantaggio di andare nel Far East è che il tuo fornitore là lavora anche per altri, spesso molto grandi, e riesce ad ammortizzare il costo dello sviluppo o dell’investimento che ha fatto con te o su di te. In Italia al contrario i volumi calano ed è difficile sostenere gli investimenti. Noi comunque vogliamo continuare a mantenere qui la produzione, anche per una motivazione di pregio e di vanto specie per il nostro top di gamma come l’Aviator 3. Continuiamo a lavorare coi piloti e a fare ricerca, abbiamo al nostro interno un laboratorio certificato dal Ministero dei Trasporti per i test di routine, per verificare che la nostra produzione sia sempre conforme alle normative."
C’è sviluppo costante.
"Certamente, anche legato alla normativa. Ad esempio per affrontare gli impatti rotazionali abbiamo evoluto il nostro sistema AMS nell’AMS+, più efficace nel dissipare l’energia di questi impatti grazie a due calotte che sono come intersecate tra di loro attraverso uno strato di elastomeri: la prima calotta fa da strato protettivo e la seconda attraverso questi elastomeri ha un movimento rotatorio viscoso."
E poi c’è la galleria.
"Sì, dal 2019 abbiamo anche la nostra galleria del vento, dove mettiamo anche i caschi da off-road. Uno magari si chiederà perché: principalmente per la ventilazione, ma anche per la forma del frontino. Ad esempio sull’Aviator 3 è scaricato nella parte centrale, all’inizio non lo era ma dopo i test nella Galleria del Vento abbiamo verificato che queste scanalature aiutavano ad alleggerire la spinta dell'aria, soprattutto alle alte velocità che si raggiungono non tanto nel Motocross ma più che altro nei Rally, come la Dakar. Cerchiamo di ridurre le turbolenze, che alla lunga disturbano molto sia a livello visivo che la muscolatura del collo. Poi ovviamente si lavora sulla posizione delle prese d’aria. In generale in galleria studiamo tre cose: aerodinamicità vera e propria, acustica e termodinamica, con una falsa testa ricoperta da 32 termo sensori che ci dicono se c’è un incremento o un decremento della temperatura corporea. I nostri caschi negli ultimi anni sono diventati più confortevoli: più silenziosi, stabili e meglio ventilati."
Fa la differenza.
"Senz’altro, anche perché una volta uno aveva un solo casco e lo usava per tutto, si adattava. Adesso ci siamo resi conto che tanti utenti hanno più moto e per ogni tipologia di moto vogliono il casco adatto: quindi vengono richieste delle caratteristiche che a cui prima magari si dava meno importanza, come i tessuti più confortevoli o l'insonorizzazione. Ad esempio sul modulare Mathisse 2 usiamo un tessuto che oltre a essere molto morbido è anche fonoassorbente, fa un bellissimo effetto ovattato. Ci abbiamo messo anni a trovarlo."
Anche perché in tanti oggi usano l’interfono.
"Anche quello sta iniziando ad essere una richiesta, quasi un accessorio di serie. Per noi tutta la gamma tranne i caschi off-road Aviator 3 e Wraap è predisposta per l’interfono, sia come compartimento interno dedicato che a livello di omologazione. So che nell’off-road sembra strano, ma ci sono le guide che fanno percorsi in gruppo, gli enduristi che possono perdersi in una cavalcata… c’è comunque richiesta anche in quel settore. Se poi arriverà anche in gara, saremo pronti."
Cosa c’è nel vostro futuro?
"Resteremo concentrati sui caschi, non vogliamo estenderci all’abbigliamento ma approcceremo settori diversi come la Formula 1, il Rally. Fortunatamente sono sempre molti gli ambiti in cui c’è bisogno di tecnologia per proteggere la testa."