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I viaggi dei lettori

Siamo andati in Cina

il 23/05/2002 in I viaggi dei lettori

Strano posto il Beluchistan…

Siamo andati in Cina

di Pier Felice Finocchi

Quando si deve affrontare un viaggio di circa 20.000 km con due mesi di tempo, incontrando ogni tipo di condizione climatica e meteorologica e fondi stradali tra i piu’ vari, dal ruvido asfalto al letto del fiume, la scelta della moto giusta equivale ad avere la certezza che metà del progetto è realizzato.

L’aver avuto a disposizione un Dominator dava quindi ottime probabilità di riuscita dell’impresa.
Con una volata si arriva a Brindisi, da qui l’imbarco per la Grecia. Inizia subito la strada per il Passo Katara, tornanti su tornanti, strada stretta e asfalto insidioso, in alcuni tratti in parte sciolto. Affrontare questa strada con il Dominator è un piacere, scattante nei tratti corti, dove è possibile sorpassare, e sicuro nella frenata che precede il tornante.

Turchia
I lunghi rettilinei dell’altopiano Anatolico sono stati percorsi in quinta a pieni giri, il tachimetro segna 155 km/h anche se la moto può dare di più, ma ovviamente è frenata dal pieno carico, dai copertoni di ricambio e da una tanica da 5 litri usata per avere una piccola scorta di carburante. La zona del Kurdistan turco è affrontata di notte, il freddo è intenso, i passi di montagna superano i 2000 m, ottima l’illuminazione che la moto fornisce, un po’ difficoltosa la doppia regolazione del fanale.

Iran
Caldo secco dopo le montagne che portano a Tabriz. Sempre accolti con entusiasmo spontaneo a ogni sosta. Lungo l’autostrada si affianca un’automobile con una famiglia: tirato giù il finestrino mi passano una grossa fetta di torta.
Superata Qazvin, famosa per l’uva senza semi e una bellissima moschea, si lascia la strada principale e ci s’inoltra su sterrati per visitare i vecchi Caravanserragli disseminati un po’ ovunque da qui sino alla ancora lontana Cina. Qui spicca la natura off road del Dominator che fa quasi dimenticare la prudenza, bagaglio più importante d’ogni viaggio. Dopo la splendida Esfahan è tempo di manutenzione, ma il tutto si riduce a poco, l’asta dell’olio indica ancora un livello a metà tra il massimo e il minimo, nonostante le lunghe e veloci tirate, e la catena di trasmissione ha il suo giusto gioco.
Più si scende a sud e più il clima si fa caldo e umido, ottime le giacche leggere di B&T, qualche difficoltà nel reperire benzina che in ogni modo è ancora di buona qualità. Si tenta di raggiungere in serata Zahedan a due passi dal confine con l’Afghanistan e il Pakistan, questo perché viaggiare di notte potrebbe essere pericoloso. Qui vanno e vengono contrabbandieri d’oppio e trafficanti d’armi e in passato si sono verificati rapimenti e rapine ai danni dei rarissimi viaggiatori.

Pakistan
Entrare in Pakistan da questa regione è sempre un’incognita e seguire le strade da noi percorse può portare ad avventure assolutamente non volute ma che una volta vissute difficilmente si dimenticheranno. Strano posto il Beluchistan, si presenta come un deserto per poi diventare roccia nera e pietraie e trasformarsi ancora in montagne quasi verdi, con gole strettissime e valli solcate da larghi fiumi e in altura altopiani di sabbia, dove la prima cosa che faresti è quella di ficcarti sotto uno dei rari alberi godendone l’ombra, pagando poi lo scotto di un’inevitabile bucatura.
Verso est cambia sia il paesaggio, che diventa sub tropicale, sia la temperatura che diventa letteralmente insopportabile. Il fondo stradale è ora di terra che si trasforma in un micidiale fango vischioso, laddove il sole non riesce ad asciugare le abbondanti acque monsoniche. E’ qui in Beluchistan dove più d’ogni altro luogo ho apprezzato appieno le caratteristiche del Dominator.
Inizia il tratto di montagna e iniziano i primi guai, la strada è in sostanza a una corsia e si guida a sinistra, i camion che vengono dal senso opposto ti obbligano a buttarti fuoristrada se non vuoi essere investito, questo è possibile solo grazie all’agilità delle moto.
Una jeep completamente fuori corsia investe frontalmente uno di noi. La fortuna ci assiste, a 15 km c’è un piccolo ospedale, ci dividiamo: due su un pick-up con il ferito e due a fare la guardia alle moto. I rari camionisti che si fermano c’esortano ad andare via il prima possibile da quel luogo, terra incontrastata di predoni.
C’è tensione. Dopo alcune ore ritornano gli altri, risultato dell’incidente: mano ingessata, tre punti al naso e tre ad un braccio. Organizziamo il trasporto della moto e del pilota su di un camioncino fino a Quetta, capoluogo del Beluchistan. Bisogna arrivare prima che cali la notte, ma la strada è piena d’insidie ed è ormai il tramonto, così all’uscita di una curva a velocità sostenuta uno di noi non vede (e sfido chiunque a farlo) due cunette prima della ferrovia. Ho visto la moto girare su se stessa tre volte, lanciare una fiammata di scintille sull’asfalto, catapultare il suo pilota a destra e fortunatamente la tanica colma di benzina a sinistra. Tanta paura ma solo escoriazioni, ci abbracciamo. Si rimette in sesto la moto e si riparte.

Dopo alcune ore le lontane luci di Quetta ci sembrano un miraggio. Moto incidentata e pilota proseguono in treno per Peshawar. Prendiamo la strada delle montagne, segnata sulla carta come principale e sicuramente più fresca dell’altra che costeggia l’Indo.
Siamo in piena area tribale, dopo Zhob, dove veniamo ingoiati da una folla non troppo ben disposta, uno sterrato ci porta a dover guadare un fiume largo una ventina di metri, con acqua alta fino a metà coscia. Si prosegue nella speranza di ritornare su asfalto, ma per due lunghi giorni non sarà così. Sempre più contento della scelta della moto cerco di godermi gli altri guadi e le varie mulattiere, ma un pick-up carico di persone armate di kalashnikov, mettendosi per traverso sulla strada, mi riporta bruscamente alla realtà. Non si sa bene cosa fare, poi ci fanno proseguire ricordandoci del pericolo al quale andiamo incontro.
Riusciamo a trovare qualche tanica di benzina, 75 ottani, nessun problema per le nostre monocilindriche.
Un piccolo villaggio ci dà la possibilità di approvvigionarci di acqua (piovana), in un negozietto troviamo biscotti insieme a bombe a mano e caricatori per mitra e l’immancabile calendario con la foto di Bin Laden, oggi tristemente famoso. Inizia a fare sera e non c’è modo di uscire da queste gole. Un altro guado, ma l’acqua è troppo alta, è buio, siamo bagnati fino alla cinta e se di giorno può far piacere visto il gran caldo, con l’arrivo della notte no, la temperatura scende. Accendiamo un fuoco nella speranza di asciugarci, ma questo attira altri uomini armati che ci fanno capire che da lì è meglio andarsene e ci guidano fino ad un guado più basso, dove la moto con il pilota sopra è sostenuta da altre tre persone per la forte corrente, fortunatamente le Givi laterali sono impermeabili.
Passiamo la notte all’aperto, ospiti di un pastore che ci fa un ottimo té con l’acqua del fiume. Il giorno successivo stessa storia, spacci con armi e foto di Bin Laden, guadi e mulattiere. In tutta questa regione i pakistani non sono assolutamente presenti. La strada che fiancheggia il confine afghano è un via vai di gente armata che spesso ti ferma per la sola curiosità di vederti, alcuni sembrano ostili altri l’opposto. Arriviamo a Darra, luogo di produzione di armi, poi Peshawar.
Mi chiedo quante di quelle persone incontrate siano ora in Afghanistan a combattere e quanti di quei fortini visti siano ancora in piedi. Ci ricongiungiamo con il nostro compagno e dopo alcuni giorni si parte per la Cina. Le pessime condizioni climatiche ci obbligano a non affrontare lo Shangla Pass, sono straripati i due fiumi e le valanghe hanno totalmente bloccato la strada. Non è meglio sulla via che



Yurte o Gher? La disputa va avanti da innumerevoli anni, mongole o centroasiatiche?
Non lo sappiamo, ma abbiamo avuto la fortuna di “viverci” e la percezione di cosa ciò significhi.
Lunghi sterrati che si arrampicano su morbide montagne fino a 3000/3500 m, qui appaiono immensi e dolci altopiani, attraversati da ruscelli il cui contenuto è l’equivalente del nostro rubinetto; disseminate come preziosi e rari funghi bianchi, qua e là fanno la loro comparsa le yurte.
A circa un chilometro, un lago. Cavalli, qualche raro cammello a pelo lungo, pecore e altri ovini a noi sconosciuti, il tutto su di un tappeto verde che dà un senso di tranquillità, di morbidezza, di un mondo a noi veramente lontano, di… semplicità. Ed è questo quello che più ci ha colpito, la semplicità della vita, non nel senso di facilità, ma nel suo significato più bello, saper apprezzare ciò che si ha ed usarlo al meglio.



L’interno di queste meravigliose tende di feltro montato su di una struttura in legno ci colpisce. La piccola porta in legno coloratissima, tappeti variopinti, sia alle pareti sia sul terreno, una stufa alimentata da sterco seccato al sole ed un piccolo e ingegnoso contenitore per l’acqua, appeso alla parete, che scarica in un piccolo lavandino che a sua volta immette il liquido usato in un recipiente sottostante. Completano l’arredamento un ampio tavolino basso (qui non si usano le sedie) e caldissime coperte piegate durante il giorno, pronte per essere usate durante la fredda notte.
L’escursione termica è veramente grande, si passa da circa trenta gradi, in pieno giorno, a zero nella nottata; questo quando il tempo è buono. La mattina prima del nostro arrivo aveva nevicato.
Cibo semplice e ottimo, zuppe di legumi, pesce di lago essiccato al sole e quindi arrostito, latte fermentato leggermente alcolico, riso e carne.
La mattina ci si lava nel ruscello.
Di notte il silenzio è assoluto, si sfida volentieri il freddo per ammirare il cielo, così immenso che sembra inghiottirci, così indimenticabile, indimenticabile come questi pastori nomadi che ci hanno ospitato e che ci hanno fatto capire il valore e la grandezza della vita in condizioni che a noi appaiono intollerabili.



Ci vorrebbe ora un resoconto di quello che è accaduto in centro Asia, degli innumerevoli posti di blocco della polizia, con situazioni che sembrano in un primo momento irrisolvibili e poi magicamente svaniscono; della solerzia di alcuni funzionari e dell'esatto opposto di altri, dell'aiuto e della totale indifferenza ricevuti. Ci vorrebbe un capitolo a parte solo sulle persone incontrate, anche loro in viaggio come noi e ci vorrebbe sopratutto un sacco di tempo per fare tutto questo... ci vorrebbe poi qualcuno che potesse comprendere come ci si sente dopo esperienze di questo genere... soli, soli nel senso positivo della parola ma allo stesso tempo parte di un qualcosa di più grande di noi e quindi... felici.
Ma quello che a mio giudizio ci vorrebbe veramente è far fare un giro per il mondo a tutte quelle persone che non vivono la loro vita ma la subiscono, a tutte quelle persone che non sanno apprezzare quello che hanno ma sanno lamentarsi per quello che non hanno, per farla corta a tutti quelli che sanno ben vedere "la pagliuzza nell'occhio del proprio vicino".

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