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Africa

Dall'Italia al Sud Africa: 18esima tappa

di Anna & Fabio il 01/12/2010 in Africa

L'esperienza, fortissima e dilaniante, della visita all'ospedale S. Albert, ha scosso i nostri viaggiatori: che ci raccontano quel che hanno visto, ma soprattutto muovono un appello alla solidarietà

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S. Albert Hospital: eccoci pronti per visitare e dare un'impressione sul secondo dei progetti che ci stiamo impegnando a sostenere con il nostro viaggio.
I ragazzi del Cesvi ci vengono a prendere e ci organizziamo per visitare il S. Albert Hospital il giorno dopo il nostro arrivo ad Harare. La mattina, accompagnati da Sabine, che lavora da 20 anni su questo progetto, raggiungiamo l'ospedale circa 200 km a nord.
Mi sono preso del tempo per descrivere questa visita perché ne sono uscito davvero provato e non potrei perdonarmi se non riuscissi a far giungere loro qualche aiuto.
L'ospedale ha tre medici: due lavorano e uno dorme. Si prendono cura di circa 600 persone al giorno. Molte di queste arrivano a piedi anche da oltre frontiera. Feriti, malati, donne incinte, molti solo mortalmente affamati. Abbiamo la sfortuna di arrivare in contemporanea con un camion che distribuisce farina. Fuori dalla rete che circonda l'ospedale ci sono almeno 1000 persone in paziente attesa del loro sacchetto: 1 kg di farina a testa. Alcuni, per averla, hanno camminato per 100 km e atteso per giorni.
A tutti i problemi endemici di una zona così disastrata in una nazione così disastrata, si aggiunge la gestione del fenomeno AIDS. Una donna su tre ne è affetta. E a questo si aggiunge un gap culturale che considera l'esame del sangue, assolutamente necessario per poter stabilire un freno alla diffusione del contagio, come l'anticamera della malattia.
Le strutture dell'ospedale sono composte da tre o quattro edifici, puliti e ben tenuti ma ormai bisognosi di cure quanto i pazienti. Lo spazio è poco, le attrezzature ancor meno. Proprio per questo (senza fare facile polemica) raramente mi è capitato di vedere un ospedale condotto con tanta efficienza e dedizione. Parliamo con i medici (non con quello che dorme): in maniera molto pragmatica battono sul tasto prevenzione. Solo così l'AIDS può essere tenuto sotto controllo. E qui, per la prima volta 12 anni fa, sono riusciti a interrompere il filo del contagio da madre a figlio. Il neonato di allora, che abbiamo incontrato, è un ragazzino sano e come lui lo sono molti altri, i genitori sono stati convinti a sottoporsi all'esame e le madri sono state costantemente monitorate durante la gravidanza. Non sono solo le tecniche adottate al momento del parto a garantire il successo, ma soprattutto un lungo lavoro di educazione e prevenzione. Oneroso, difficile e condotto con grande tatto. Gli esami sono anonimi, la lettura dei risultati è sempre assistita e riservata. I bambini sono costantemente tenuti sotto controllo. Tutto fatto da solo tre medici, e un pugno di infermieri e tecnici che probabilmente non dormono mai.
Talmente bravi ed efficienti che lo stato, o quello che ne resta, ha affidato loro anche la formazione delle infermiere che dovranno occuparsi di altre strutture.
Ma di fronte a tutto questo ottimo lavoro rimangono evidenti le deficienze: non ci sono i soldi per effettuare ampliamenti e i nuovi reparti trovano posto sotto alcune tende. Le madri sotto controllo in attesa del parto, le cui case sono a molte ore, o giorni di cammino da qui, dormono in alcune baracche ai margini dell'ospedale, le camerate e la cucina sono il minimo indispensabile.
Per non parlare della sala operatoria: l'unica nel raggio di centinaia di chilometri. Ogni tavola anatomica è realizzata a mano. Non ci sono fotocopie e c'è solo un computer. Nessun collegamento a internet . Ogni giorno si fanno i salti mortali per far quadrare il bilancio. Perciò credo che di aiuto ce ne sia bisogno, eccome.
Abbiamo cercato di documentare questa realtà e speriamo che il materiale realizzato riesca a smuovere qualcosa.
Quest'esperienza ha dilaniato le nostre coscienze.
Ciao!

www.1bike2people4aid.it
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