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Comparativa: lotta fra 3 supersport

il 03/08/2004 in Moto & Scooter

Ducati 749 Dark, Kawasaki Ninja 636 e Triumph Daytona 600: provate su strada perchè è soprattutto lì che molti di voi le useranno. Più che tra due e quattro cilindri, qui è battaglia tra filosofie diverse

Comparativa: lotta fra 3 supersport
La strumentazione della Daytona 600: solo il contagiri è analogico. La zona rossa parte da 14.000 giri



Abbiamo voluto prenderne tre, diverse. Potevamo scegliere le quattro “600” giapponesi, in fondo sono quelle che vendono di più. Invece qui l’unica nipponica ha 37 cc più del dovuto. Sì, perché abbiamo preferito selezionare il meglio da ciascuna delle tre scuole motociclistiche che animano il settore supersport. Per la verità, nei due casi europei la scelta è stata molto semplice.


Partiamo dall’Inghilterra: a livello industriale, la Triumph è l’unica casa d’oltremanica a produrre motociclette da strada. In categoria Supersport, dopo il mezzo buco nell’acqua con la TT600 (che pagava un gap tecnico e di prestazioni troppo evidente rispetto alle giapponesi), la solfa è cambiata con l’arrivo della Daytona 600.



Cambia il look, cambia la componentistica, cambiano i numeri riportati sulla scheda tecnica. Insomma un’altra moto, con prospettive di competitività molto superiori. Anche per la concorrente italiana non c’era molto da decidere, tutt’al più il dilemma poteva stare nella scelta dell’allestimento, ma il nome era uno solo: Ducati 749. Abbiamo optato per la Dark, cioè l’entry level alla gamma “Superbike” bolognese, per il semplice fatto che è quella col prezzo di listino più vicino a quello delle concorrenti. Infine, tra le giapponesi la scelta è caduta sulla Ninja 636 perché è non solo la più potente, ma anche la più godibile su strada tra le quattro nipponiche.



È una sfida non facile, il rischio è soprattutto quello di fomentare il solito scontro tra Ducatisti e filo-jap, che in genere poco ha a che fare con gli oggettivi valori in campo. E poi c’è l’incognita della Triumph, che –lo ricordiamo giusto per far tacere gli scettici– ha vinto l’ultimo TT all’isola di Man e sta facendo un’ottima figura nel campionato Supersport inglese. Insomma, una moto da non sottovalutare.



Li vorrei vedere tutti qua davanti, in fila. Parlo di quelli che urlarono parole di stizza, che minacciarono di mettere a ferro e fiamme Borgo Panigale alla vista delle prime foto della serie 749/999: “Fa schifo, invecchierà in tre mesi, Terblanche è un brocco”. Era vero? No, assolutamente. La 749 in prova, sia durante il test che nel corso di qualche scorribanda sui passi nel fine settimana, era ovunque guardatissima, anche dai non motociclisti: le sue linee sembrano scolpite e senza tempo, e il colore nero opaco incrementa la suggestione di “alieno” che permea l’intera motocicletta.



La Ninja è inconfondibilmente una giapponese. Niente di male, per carità: occhi vicini da insetto cattivo, coda alta, grosso scarico laterale (alto anch’esso). All’uscita fece scalpore, soprattutto per il design senza compromessi, che si intonava con la nuova personalità da sportiva estrema (non usuale per questo modello), un po’ sulla scia della Yamaha R6. So di rischiare il linciaggio, ma secondo me il tipico verde “lime” penalizza un po’ la belvetta di Akashi perché la caratterizza immediatamente come una Kawasaki, prima che come una “bella moto”. Ma questa, forse, è solo filosofia…



Dicendo che la Daytona sembra una giapponese di qualche anno fa, sembrerebbe la si voglia offendere. Ma non è così, affatto. Il Japan-style è evidente, le somiglianza con le Kawasaki Ninja 12 o con la vecchia 636 anche. Si potrebbe dire, in questo senso, che la Triumph è un’ottima rivisitazione, con dettagli estetici eleganti e finiture molto ben realizzate: codone serbatoio e carena mostrano una coerenza di stile davvero pregevole. Le dimensioni sono superiori a quelle delle attuali Supersport (solo la Suzuki GSX-R 600 si avvicina), e consentono un’abitabilità migliore.



La Daytona si conferma una supersportiva “alla giapponese” anche oltre il design: telaio doppio trave in lega d’alluminio che abbraccia un quattro cilindri in linea bialbero alimentato a iniezione. Certo, non sono presenti alcune caratteristiche oggi all’ultimo grido: la forcella è di tipo tradizionale e le pinze freno non sono ad attacco radiale. I 112 cavalli (senza airbox in pressione) pongono la Daytona circa a metà strada tra i 103 della 749 e i 118 (sempre senza airbox in pressione) della Ninja. Ma, come vedremo, non sono questi i numeri che fanno la differenza.

La 749 Dark (malgrado si tratti della più economica tra le Ducati sportive di fascia alta) brilla per la qualità della propria componentistica: i cerchi sono Marchesini in lega leggera a cinque razze, l’impianto frenante è marchiato Brembo. L’iniezione elettronica è prodotta dalla Magneti Marelli.
Il motore è ovviamente un bicilindrico con distribuzione desmodromica a otto valvole: si tratta della versione piccola del Testastretta, capace di ben 77 Nm di coppia a 8.500 giri.
Veniamo alla Kawasaki: da due anni è regina nel suo settore.



Tra le supersport stradali è la più potente, con 125 cavalli (con airbox in pressione), ma soprattutto è quella con le curve di potenza e coppia più favorevoli. Inoltre, a fronte di un prezzo concorrenziale (sui livelli delle altre giapponesi e della Daytona), è l’unica ad offrire le ambite pinze ad attacco radiale, abbinate alla forcella pluriregolabile a steli rovesci. Con 161 kg è la più leggera di questo confronto.



Sono tre moto piuttosto scomode per natura: per fendere l’aria ad alta velocità occorrono forme di un certo tipo, e le protagoniste di questo confronto non fanno eccezione. Però rappresentano tre diversi livelli di costrizione per pilota e passeggero: la Daytona, che ha misure più generose, consente una discreta abitabilità anche per i più alti; il busto può essere tenuto eretto, quindi se si va “a passeggio” non si devono affaticare troppo i polsi. Si può viaggiare tranquillamente fino a 160 all’ora senza sentire il bisogno di accucciarsi per evitare l’aria.


Molto diversa la condizione di chi viaggia sulla 749: carena e cupolino sono meno avvolgenti, dunque se si vuole tenere ritmi elevati bisogna rassegnarsi a infilare il casco sotto il parabrezza e tenere le ginocchia il più possibile strette a serrare il serbatoio. La posizione in sella è piuttosto costretta, forse non estrema come sulla vecchia 748 (rispetto alla quale, tra l’altro, c’è finalmente un diametro di sterzata relativamente ridotto), ma poco ci manca. Un altro indubbio disagio a bordo della supersport Ducati consiste nello scarso isolamento termico tra lo scarico e gli arti inferiori del guidatore.



La 749, proprio come la 999 e la Multistrada, nel traffico scalda in maniera (d'estate) ai limiti del sopportabile.
La Kawasaki è una via di mezzo: certo non è una poltrona, e soprattutto il passeggero, posto molto in alto, si trova esposto all'aria e costretto a tenere le ginocchia molto piegate. Ma in generale, nella guida disimpegnata, la Ninja è meno faticosa della 749, soprattutto per schiena e polsi. 

Basta inforcarle, una alla volta, e farci il giro dell’isolato, per capirlo. Il testa a testa riguarda la 636 e la 749, mentre alla Daytona 600 tocca il ruolo di Cenerentola. Il motivo risiede soprattutto nelle prestazioni del motore. Il 4 cilindri inglese ha, fin dal minimo, una voce molto piacevole e veramente aggressiva, ma ruotando la manetta ci si rende immediatamente conto che se il fumo è molto, l'arrosto è un po’ misero. Non in termini assoluti, ci mancherebbe, dato che a ben guardare la velocità c’è (255 di tachimetro), e anche l’accelerazione: ma la moto, messa accanto alla Kawasaki 636, sprofonda in ogni rilevamento. E questo a dispetto di una ciclistica sana e di soddisfazione: grazie anche alle Pirelli Diablo di primo equipaggiamento, la Daytona 600 permette pieghe da gomito a terra. Solo l'impianto frenante ci è parso sottodimensionato, ma probabilmente è un difetto limitato all'esemplare in prova, cui magari un paio di pastiglie fresche ed una sana "spurgata" avrebbero reso maggiore giustizia. Da notare il fastidioso alleggerimento dell’anteriore a velocità superiori ai 220 orari.



Ninja e 749 però sono un altro pianeta. Partiamo dalla verdona: la sensazione di sicurezza, data da tenuta e stabilità in genere, è ottima. Nella marcia stradale (anche quella più “disinvolta”) la moto imposta la curva con sicurezza, mantenendo la traiettoria in maniera rassicurante e omogenea.
La gestione del gas è intuitiva: la moto sale sì molto decisa di giri, ma senza dare “colpi” con pirotecniche entrate in coppia in grado di mettere in crisi guidatore e ciclistica. Questo a dispetto di una potenza molto elevata, la più alta della categoria. Con i suoi 120 cavalli all’albero, infatti, la piccola Kawasaki ha dalla sua veramente tanta birra che le permette di raggiungere una velocità di punta siderale (272 indicati) e le conferisce un’erogazione corposa e lineare su gran parte della scala del contagiri. La differenza con tutte le concorrenti si sente soprattutto ai medi regimi, dove la Ninja è esplosiva.
Anche per quanto riguarda la parte ciclistica le impressioni sono molto positive: la moto è stabile in staccata e in percorrenza di curva. Ma soprattutto è di un’agilità inarrivabile. In frenata la ZX-6R mostra un ottimo rendimento: l’esemplare provato ha richiesto una certa energia nell’azionare la leva, sempre molto modulabile, ma a patto di strizzarla a dovere le pinze radiali anteriori mordono con forza i due dischi assicurando delle ottime decelerazioni ed una valida resistenza alla fatica.

Una volta acceso, il propulsore della 749 si fa sentire con discrezione attraverso il caratteristico scarico sottocodone, mentre una volta innestata la prima si può assaporare fin dai primi metri il piacere di una guida “italiana”, fatta di una vigorosa spinta fin dalla zona più bassa del contagiri e contraddistinta da una resa ciclistica sicuramente meno agile delle moto nipponiche, ma al contempo più piantata al suolo.
L’avantreno della 749 è granitico e comunicativo: sembra quasi che i semimanubri non siano fissati sotto la piastra dello sterzo, ma siano prolungamenti del mozzo ruota.
È impressionante percorrere i curvoni, senza alcun impegno, e sorprendersi a velocità molto superiori a quelle che si era convinti di tenere. Il motore, lungi dall’essere una versione “di ripiego” del piccolo testastretta, spinge bene a tutti i regimi, è però particolarmente vivo dai 5000 giri fino ai 10.000, limite oltre il quale si può andare giusto per il piacere di sentire il limitatore che interviene ad 11.000 giri.
La risposta delle sospensioni è ottimale, si potrebbe solo imputar loro una certa rigidezza di fondo, problema da un lato risolvibile con un minimo di set-up sugli appositi registri, e dall'altro comunque indice dell'indole estrema del mezzo. Le prestazioni pure sono solo lievemente inferiori rispetto ad una 600 giapponese (si vedono i 260 di tachimetro). Per fermarsi, invece, è disponibile una sana accoppiata di dischi e pinze Brembo Serie Oro, che ad oggi rappresentano probabilmente lo stato dell'arte per quanto riguarda i sistemi frenanti "convenzionali" (con la pinza "non radiale", in buona sostanza). Garantiscono una decelerazione perfetta per potenza, modulabilità e resistenza: ci si può permettere di comandare sempre l'impianto con un solo dito e comunque ottenere delle frenate perfette.

Comparativa: lotta fra 3 supersport
La strumentazione della Daytona 600: solo il contagiri è analogico. La zona rossa parte da 14.000 giri

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