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Intervista a John Bloor

il 17/02/2002 in Moto & Scooter

A colloquio con il protagonista dell'avventura Triumph: gli inizi, la filosofia aziendale e le moto, per capire meglio da dove viene e dove va un marchio carico di storia e giovane di spirito

Intervista a John Bloor
Il proprietario della Triumph, John Bloor (foto cortesia Moto Journal)


di Alan Cathcart





La rinascita del marchio Triumph dalle proprie ceneri, con una gamma completa di modelli a due, tre e quattro cilindri, è riconosciuta universalmente come uno, o forse il, grande successo nel settore motociclistico degli anni ’90. Tra gli ammiratori di questa impresa ci sono anche i giapponesi: non è un segreto che proprio tra i quattro colossi del Sol Levante si trovino i maggiori ammiratori dell’opera di John Bloor, il potente immobiliarista che ha riportato il primo e (per ora) unico marchio inglese alla condizione di solida realtà industriale.
Uno sforzo considerevole, che si mormora abbia eroso anche una parte consistente delle finanze personali dello stesso Bloor (costantentemente tra i primi 100 contribuenti del Regno Unito), ma che ha dato tali frutti da richiedere nel 2000 lo spostamento di sede reso necessario dal continuo aumento della produzione, le cui stime per il 2002 parlano di 34.000 unità. Eppure, il ri-fondatore del più antico marchio del mondo ancora in attività (è nato nel 1902, un anno prima di Harley-Davidson e Husqvarna) ha sempre preferito rimanere defilato, parlando poco con i giornalisti e rilasciando ancor più raramente interviste. Per questo ho considerato la possibilità di una chiacchierata a tutto campo di un paio d’ore alla sede di Hinkley un vero onore. Ma la condizione è stata: nessuna foto! Non c’è stato niente da fare: mister Bloor preferisce rimanere in incognito, forse per poter essere presente alle più importanti manifestazioni motociclistiche e controllare l’operato dei concorrenti senza essere riconosciuto.
Ecco cosa ci ha detto, dopo 18 anni di avventura Triumph.






AC: Sono quasi vent’anni che Lei è proprietario del marchio Triumph: perché l’ha comprato? Il capriccio di un ricco appassionato?
JB:
Buona domanda. No, l’ho comprato fondamentalmente perché era in vendita e, per la verità, nessuno lo voleva. Il secondo motivo è che avrei avuto tutto il tempo di capire cosa farne. È stata una scelta dovuta esclusivamente a ragioni economiche: era un marchio conosciuto in tutto il mondo, e sarebbe stato comunque interessante riproporlo sul mercato in un lasso di tempo ragionevole. Insomma, da giovane ho avuto due o tre Triumph, ma non ha influito: all’epoca tutti quelli che non avevano i soldi per un’auto ripiegavano su una moto.

Poi l’investimento si è evoluto come si aspettava? Costruire motociclette non è semplice, specialmente quando si decide di produrre internamente molti componenti.
- Per la verità mi sarei aspettato di essere dove siamo ora impiegando tre anni in meno, ma è un ritardo accettabile, considerando la complessità di un’operazione industriale del genere. Complessità che non deriva solo dalla produzione, ma anche da tutte le attività ad essa collegate: selezione fornitori, controllo qualità, distribuzione, logistica, garanzie, ma anche progettazione, rete di vendita e assistenza… In più hai a che fare con situzioni culturalmente differenti in ogni Paese, e vanno affrontate singolarmente. Un vero mal di testa! E’ anche il motivo per cui abbiamo deciso di distribuire direttamente i nostri prodotti nelle varie macroregioni: è forse meno redditizio al principio, ma ci consente di avere un feedback decisamente migliore.

Voi costruite i motori in proprio. Invece l’Aprilia li fa fare dalla Rotax…
- Quando abbiamo cominciato non esisteva in vendita un propulsore come quelli che ci interessavano. E’ stato faticoso, perché gestire tanti fornitori invece di uno solo è molto più impegnativo, in tutti i sensi. Ma questo ci ha permesso anche di acquisire un bel know-how.

La Triumph è Sua al 100%. Perché questa scelta non comune?
- Vede, la Triumph ha cominciato nel 1991; ora ha 450 addetti alla produzione, ha da poco raddoppiato la superficie, della gamma 2001 sono state prodotte 27.000 moto, le garanzie stanno scendendo sotto l’1% della produzione totale, eppure l’azienda comincerà a essere in attivo solo quest’anno. Io volevo fare le cose con i miei ritmi e le mie convinzioni, secondo le quali è meglio cominciare a guadagnare più tardi ma creare basi solide: è anche per questo che dedico a quest’azienda il 75% del mio tempo lavorativo. Se avessi avuto una banca o un fondo come partner avrei avuto costantemente il fiato sul collo, avrei lavorato sotto pressione. Invece così arriveremo a produrre quest’anno 34.000 pezzi, e nel giro di uno o due anni giungeremo alla nostra dimensione industriale ideale, che è quella di costituire una piccola ma credibile alternativa ai giapponesi.






La TT600 ha segnato una svolta per la Triumph, con un motore e un telaio dedicati. Perché non farla a tre cilindri, invece di quattro come le giapponesi?
- Sì, lo so, qualcuno lo considera un’errore, ma io non sono d’accordo. Siamo entrati in un campo nuovo e, come è accaduto anche ad altri, il primo anno la moto non andava bene come previsto, o come qualcuno avrebbe voluto. Ma all’inizio parti con le tue idee e fino a quando non ti confronti con i mercato, non puoi averne conferma. Abbiamo puntato suprattutto sull’affidabilità, e poi siamo stati credo i primi (a parte Bimota, sìNdA) a utilizzare l’iniezione elettronica nel settore delle 600. Comunque la base ora c’è, e darà vita a una famiglia di modelli, di cui il primo è la nuova Speed Four, che stiamo lanciando. Poi arriveranno anche gli altri. Un po’ la stessa filosofia che stiamo impiegando con la Bonneville.

A proposito di Bonneville, è un modello che è sempre stato previsto dalla nascita dell’azienda. Come mai tanto ritardo?
- Dunque… E’ uscita l’anno scorso, quindi ci abbiamo messo dieci anni; se calcoliamo i soliti tre anni di progettazione e industrializzazione, non siamo stati troppo lenti. Avevamo bisogno di accreditare Triumph come un marchio di moto moderne, prima di recuperare il passato. Era stata sviluppata in parallelo con la TT600, solo che questa è venuta pronta un anno prima.




Si parla di una versione potenziata della TT600. Come guardate alle competizioni, e in particolare alla Supersport e ai regolamenti Superbike che dal 2004 eleveranno a 1000 cc la cilindrata per tutti?
- Personalmente le gare di moto mi appassionano, in particolare la Superbike, e non solo in televisione: vado ogni anno a Donington, ma sono stato anche ad Assen, a Daytona… Le corse non mi lasciano freddo, e le ritengo un ottimo banco di prova e un’occasione per migliorare il prodotto, ma per ora non voglio distogliere energie dall’azienda: chi vuol fare troppe cose di solito non ne fa bene nemmeno una. Comunque forniamo appoggio a diversi team che corrono con le nostre moto, per cui non siamo proprio fuori dal discorso. La nostra partecipazione ai campionati che ha citato è più che una possibilità, anche se facendo un passo per volta; per ora comunque non voglio dire di più.






Si parla anche di un vostro coinvolgimento con il progetto Fogarty/Petronas, e anche di contatti per mettere il nome Triumph sul motore Sauber. Il MotoGP vi interessa? Pensa che ne potreste ricavare dei benefici?
- Non escludo mai nulla che possa portare vantaggi all’azienda, ma per ora l’unica cosa che posso dire è che la Sauber ha contattato noi, e che i nostri incontri sono stati utili. Per quanto riguarda nostri ipotetici coivolgimenti con il team Fogarty, la notizia è per me un’assoluta novità e la smentisco categoricamente.

Nuovi modelli invista? Si parla insistentemente di una cruiser tricilindrica di grossa cilindrata chiaramente destinata agli USA, mentre la serie Trophy appare un po’ trascurata…
- Sì, i nuovi modelli ci saranno. La citata cruiser non lo è in senso stretto, ma è un po’ più grande della Bonneville America; comunque vuole essere una moto per tutti i mercati, che sono ugualmente importanti per noi. Certo, gli Stati Uniti sono un mercato molto grande, e ne teniamo conto. Per quanto riguarda la Trophy, ci saranno novità molto presto.




Come la trasmissione ad albero?
- Nasce per essere competitiva nel suo settore. Il resto sarà di conseguenza.

- Dopo l’accordo per fornire i motori della Italjet Grifon, siete stati contattati da Gilera, ma avete rifiutato. Se un cliente vi contattasse ora?
- Per quanto riguarda l’accordo con Italjet, sembra essere finito in letargo: non ne ho più notizia. È vero invece che un paio di anni fa Gilera ci chiese di fornire il motore della TT600. Ma sapevamo che bisognava lavorarci sopra, e non volevamo renderlo disponibile subito perché non avevamo le risorse per gestire adeguatamente la cosa: per questo abbiamo detto di no. Riguardo future forniture a terzi, abbiamo avuto qualche contatto che ci ha trovato disponibili, ma per ora nulla di concreto.






Siete stati spesso criticati per avere in listino moto ben industrializzate ma prive della personalità che ci si aspetta da un prodotto europeo. Pensiamo alla nuova Daytona: era una moto un po’ fuori dal coro, ora sembra come tutte le altre.
- Dobbiamo accettare tutti i verdetti che arrivano dal mercato, perché è con i clienti che ci dobbiamo confrontare. Lei dice che la Daytona e la TT600 sembrano troppo giapponesi, io le rispondo che sono le giapponesi a essersi “inglesizzate”: se sono venuti in Europa per farsi disegnare le loro moto, è una scelta che rispetto. Ma poi non ha senso sentire come critica che le Triumph sono simili alle altre, non è mica colpa nostra! Poi ci sono anche i limiti imposti dalle norme di omologazione, come la larghezza del fanale anteriore della Daytona. A volte non siamo liberi di disegnare le moto come vorremmo, ma sono convinto che John Mockett e altri che lavorano e lavoreranno con noi stiano facendo un’ottimo lavoro.

L’avventura Triumph ha dato i suoi risultati. Ci sono altri marchi storici – Norton e BSA, per esempio - che hanno scritto grandi pagine di motociclismo. Potrebbero essere un prossimo obbiettivo?
- Ciò che posso dire è che un conto è comprare qualcosa, un conto assai differente farla funzionare. Non ho mai avviato trattative per acquistare un altro marchio, né rientra nei miei piani.

Ultima domanda: quali sono i pilastri della sua azienda?
- Per prima cosa le ottime figure che abbiamo messo al suo interno. Abbiamo selezionato in base a referenze e curriculum vitae appena il 3% dei dipendenti: tutti gli altri sono passati da un test psicoattitudinale molto mirato. Non è un caso che abbiamo un turn-over molto basso – circa il 2,5% -: si vede che mettiamo le persone giuste al posto giusto. Il secondo pilastro è il cliente: non ci dimentichiamo mai che è lui ciò che conta, e tutti i nostri sforzi sono diretti alla sua soddisfazione.
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